la Repubblica, 25 settembre 2015
I 17 gol per il campionato dell’Onu. Sconfiggere la povertà e la fame nel mondo, ridurre le disuguaglianze, tutelare l’ambiente. Il Palazzo di Vetro lancia 17 nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile da realizzare entro il 2030. Sicuri che servano davvero?
Gol storditi, dizzy goals in inglese, è stato un successo planetario. Si monta una telecamera, poi si fanno un numero extraumano di pompate, sollevandosi con le braccia dal terreno, quando si crolla ci si rialza barcollando e si tenta di segnare un rigore a porta vuota. Lo hanno fatto Gareth Bale, Gary Lineker, Alan Shearer, Theo Walcott e anche Usain Bolt (nessuno deve averne informato Totti e Mancini). I video che mostrano i gol storditi dei giocatori dell’Arsenal e del Liverpool hanno avuto un milione di contatti su Youtube. Ma goal, in inglese, significa obiettivo e il record dei calciatori è stato frantumato dagli One Direction con i 2 milioni di contatti del video in cui i musicisti e i loro fan indicano i loro goal, cioè i loro obiettivi. Ad andare su Youtube per recitare i loro obiettivi sono andati anche Richard Branson, il boss della Virgin, Meryl Streep, Stephen Hawking. Kate Winslet e John Legend si sono fermati ad un selfie. Ma non è un’epidemia di sedute di autocoscienza. Gli obiettivi sono mondiali, anzi, universali. Sono la fase 2 dei Millennium Goals che l’Onu lanciò nel 2000 e che scadono quest’anno. Al loro posto arrivano i 17 nuovi Sustainable Development Goals, obiettivi di sviluppo sostenibile, che Gareth Bale, Meryl Streep e gli One Direction stanno propagandando online. Riassumerli è facile.
Pace, pane (almeno), giustizia agli uomini e alle donne di buona volontà. Questo, più o meno, dirà papa Francesco oggi nel luminoso palazzo dell’Onu di New York, aprendo il summit di 150 capi di Stato che deve ufficialmente varare i nuovi obiettivi dell’umanità. E questo diranno Obama, Xi Jinping e decine di altri leader, ribadendo solennemente il loro impegno per un mondo migliore. In un momento in cui gli estremisti della Jihad incendiano una buona fetta del pianeta, centinaia di migliaia di rifugiati tentano un viaggio disperato, a volte mortale, verso la pace, la Terra in genere rischia di friggere per l’effetto serra, le parole, probabilmente, non bastano, ma non fanno male. E un grazie a Kate Winslet e Gareth Bale che si adoperano perché non ci dimentichiamo questo prontuario delle cose che sarebbe bene fare. Eccole.
Basta con la povertà. Salute, benessere, scuola, acqua, fognature, energia, giustizia e lavoro per tutti. Ridurre l’ineguaglianza e la disparità uomo- donna. Città belle e sicure. Fermare il degrado planetario e il riscaldamento globale. Questi i titoli dei 17 capitoli che si articolano in 169 obiettivi specifici. Nella prossima primavera saranno varati degli indicatori che consentano di capire se si va nella direzione giusta. Operazione fondamentale, se non altro per la mobilitazione. Forse Meryl Streep e gli One Direction dovrebbero informarci ogni anno del bilancio degli Obiettivi di sviluppo sostenibile. L’esperienza dei Millennium Goals, infatti, non è confortante. Erano otto e avrebbero dovuto essere raggiunti quest’anno: dalla povertà alla scuola elementare per tutti, alla riduzione della mortalità infantile e di parto, alla lotta all’Aids e alla malaria. Ne è stato centrato soltanto uno e un pezzo di un altro. Quello importante è la povertà. Oggi ci sono, nel mondo, metà dei poveri di inizio millennio. Ma il merito è tutto della Cina, il cui impetuoso sviluppo si è, alla fine, esteso anche agli strati più sfavoriti della popolazione. L’altro obiettivo (un sotto- obiettivo, in realtà) riguarda i telefonini. Nel 2000, ce li aveva il 10 per cento della popolazione mondiale. Ora siamo al 92 per cento. Ma la gente, come per la povertà, ha fatto tutto da sola, non certo con i Millennium Goals.
Probabilmente, lo stesso avverrà anche con i 17 nuovi Obiettivi. Il mondo, infatti, cammina. E, dunque, per fare un esempio, gli esperti dicono che un dramma di oggi, nel mondo povero – la morte per parto – dovrebbe alleviarsi nei prossimi anni. Da 195 puerpere morte per ogni 100 mila parti si dovrebbe passare a 152. Nei 169 obiettivi specifici, l’Onu indica un obiettivo di 70, ma gli esperti lo indicano fuori portata. In Asia e in America latina ci si arriverà, ma nell’Africa subsahariana difficilmente si scenderà sotto quota 300 puerpere morte anche nel 2030. Nelle stesse zone, per fare un altro esempio, due bambini su tre, nel 2030, continueranno a non fare la scuola media. Il problema, banalmente, è di soldi. I calcoli dicono che gli interventi che sarebbero necessari per centrare i 17 obiettivi del 2030 costano, grosso modo, 5 mila miliardi di dollari l’anno. Una cifra enorme, pari ad oltre il 5 per cento della ricchezza prodotta, in un anno, in tutto il mondo. Il grosso, naturalmente, dovrebbe venire fisiologicamente dai governi direttamente interessati, ma sono i governi dei Paesi, per definizione, poveri, che possono mobilitare risorse scarse e in tempi lunghi. Ecco perché molti critici, a cominciare dagli economisti e dagli ambientalisti raccolti intorno al Copenhagen Consensus, ritengono che sarebbe stato meglio concentrarsi su obiettivi meno generici e più credibili. Ma, anche restrin- gendo i bersagli, gli ordini di grandezza restano incompatibili. E sperare che arrivino soldi in misura significativa a livello internazionale è inutile.
Dei 100 miliardi di dollari promessi, nel 2009, ai Paesi poveri perché si attrezzassero contro il riscaldamento globale, ancora non si è visto un centesimo. E i soldi degli aiuti internazionali, promossi dall’Onu, restano spiccioli. Nel 2014, superato il momento buio della grande crisi finanziaria mondiale, sono stati distribuiti, in tutto, 135 miliardi di dollari. L’obiettivo fissato dall’Onu ai Paesi ricchi (aiuti in ragione dello 0,7 per cento del prodotto interno lordo di ogni singolo Paese donatore) è rimasto largamente fuori vista. Lo 0,7 per cento del Pil dei paesi Ocse (l’organizzazione che riunisce i Paesi sviluppati) equivale, infatti, a oltre 326 miliardi di dollari. Mancano all’appello, solo per il 2014, 191 miliardi di dollari. Se hanno ragione gli economisti del Copenhagen Consensus, largamente sufficienti ad abbattere la cattiva alimentazione infantile, a ridurre del 70 per cento la mortalità dei neonati, a dimezzare le morti per malaria e a cancellare quelle per tubercolosi, a far fare almeno le elementari a tutti i bambini africani. Forse, oggi, al palazzo delle Nazioni Unite, bisognerebbe fare come in chiesa, dove, dopo le prediche, si passa con il sacchetto delle questue e Obama e Xi dovrebbero consegnare i loro assegni. E, tuttavia, in assoluto, i 135 miliardi di dollari distribuiti nel 2014 non sono noccioline. Chi li ha presi? La lista dei maggiori beneficiari di aiuti internazionali non è fatta per dissipare ogni dubbio. Solo otto Paesi al mondo, ad esempio, hanno incassato, nel 2013, più aiuti della Turchia, che non pare un Paese disastrato e ha un reddito pro capite che è dieci volte quello del Bangladesh, che di aiuti ne ha avuti di meno. In testa alla classifica c’è l’Egitto (5 miliardi e mezzo di dollari), seguito dall’Afghanistan e dal Vietnam che, pure, sono più poveri. All’Etiopia, che è più povera ancora, è andata peggio.