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 2015  settembre 25 Venerdì calendario

I dati sul Pil, la grande incognita della Cina. Quanto crescerà Pechino quest’anno? La realtà secondo gli analisti è lontana dal 7% stimato dal governo e più vicina al 3-4%. I dati macroeconomici non saranno certo al centro dei colloqui tra Xi e Obama, ma non è un caso se proprio oggi, in conferenza stampa, l’istituto di statistica cercherà di difendere le proprie stime e le proprie metodologie di calcolo

È spesso chiamata la “guerra fresca”. Divide Washington e Pechino, che sullo scacchiere dell’Estremo oriente hanno strategie militari e politiche decisamente confliggenti. Non esplode in un confronto diretto – anche se non necessariamente militare – solo perché i due governi e le economie che sostengono sono interdipendenti: una situazione che crea nuove occasioni di frizione – come insegna il caso di Eurolandia – ma anche il bisogno di non esasperare troppo le posizioni.
Le settimane precedenti l’incontro tra Barack Obama e il presidente cinese Xi Jinping hanno però alterato l’incerto equilibrio in cui si mantenevano, sul piano economico, le relazioni tra i due governi. Il gonfiarsi del sistema bancario ombra, i deflussi di capitali, le brusche flessioni della Borsa di Shanghai, le notizie sul calo delle esportazioni, il riallineamento dello yuan che ha fatto temere una rapida svalutazione, le misure espansive di politica monetaria “contraddette” da una riduzione delle riserve per sostenere il cambio che, di fatto, realizzano un quantitative tightening e non l’atteso e spesso auspicato quantitative easing sono episodi – ed errori politici – che toccano direttamente il cuore del complesso patto non scritto tra Pechino e Washington: l’acquisto di riserve in dollari, e quindi di titoli di Stato Usa da parte dei cinesi, gli investimenti e gli acquisti di beni prodotti nel paese asiatico da parte degli americani (e non solo).
I rapporti Washington-Pechino sono quindi ora animati – anche sul piano economico – da una forte incertezza, esasperata anche dall’assenza di informazioni affidabili. La Federal reserve, nei giorni scorsi, ha rinunciato ad alzare i tassi anche a causa dei timori che la situazione cinese sta creando nel mondo finanziario; e il presidente della banca centrale Usa Janet Yellen si è persino spinta a manifestare i propri dubbi sulla «capacità» (deftness, nell’originale inglese) di Pechino di gestire la politica economica. È stato solo l’ultimo colpo alla credibilità del governo cinese.
«Nulla in Cina è ufficiale», raccontava qualche tempo fa un imprenditore italiano attivo nel paese. Finché tutto è andato bene, il problema è rimasto accademico. Oggi, però, non può sorprendere se anche le informazioni che giungono da Pechino siano messe in dubbio. A cominciare dalle statistiche sul prodotto interno lordo – da cui dipendono molte cose, dalla tenuta dei mercati finanziari alle scelte di politica economica – che è difficile da valutare ovunque e a maggior ragione in un paese in cui è ampia la quota di economia informale. È noto che l’istituto cinese non rispetta ancora gli standard internazionali di calcolo, ai quali si sta avvicinando gradualmente; e che ha calcolato a lungo il pil con una serie di alterazioni non previste in altri sistemi. Ha anche colpito molto il fatto che le promozioni dei funzionari locali di partito siano legate ai risultati del pil, incentivando così l’alterazione dei numeri (alcuni parametri sono indirettamente derivati da dati delle amministrazioni pubbliche). Un ex governatore locale, Li Keqiang – che oggi è premier – ammise nel 2010 che queste stime sono «fatte a mano e spesso non credibili».
Ha soprattutto sorpreso la precisione con cui, nel passato, la crescita abbia centrato o superato gli obiettivi del governo in un paese che è molto dipendente dalle esportazioni, una voce molto volatile: per quest’anno, per esempio, Pechino ha indicato un incremento del pil del 7% e per la prima metà dell’anno l’istituto di statistica ha indicato... il 7% annuo. Peccato però che il pil nominale sia cresciuto del solo 5,8%: questo significa che i prezzi interni, dovrebbero essere calati dell’1,2%, mentre le statistiche calcolano un aumento dei prezzi al consumo dell’un per cento.
Nessun analista crede quindi che il paese possa raggiungere il 7%, quest’anno. I modelli macroeconomici – che “girano” però con i dati ufficiali – fanno emergere (in mediana, nel consensus di mercato) un 6,8% per quest’anno e un 6,6% per il prossimo (ma la Barclays, per esempio, si ferma al 6%). Sembrano però più previsioni sul “dato ufficiale” che indicazioni sul reale andamento dell’economia. Altri economisti, nel corso di quest’anno, hanno ritenuto più probabile un ritmo di crescita ben più basso: Capital Economics ha puntato al +4,9% nel primo trimestre e al +4,3% nel secondo trimestre (sul 7% dichiarato), la Lombard Street Research ha indicato rispettivamente il +3,8% e il +3,7%; Natixis ricalcola nel +2,3% la crescita in primavera; il China Center del Conference Board parla di un +4% per l’anno scorso e quest’anno con una crescita forse anche più lenta in seguito. A Pechino, in ambienti riservati, si parla di un mero +2,2%, secondo l’International Business Times, tra i primi tre giornali finanziari online più letti al mondo.
I dati macroeconomici non saranno certo al centro dei colloqui tra Xi e Obama, ma non è un caso se proprio oggi, in conferenza stampa, l’istituto di statistica cercherà di difendere le proprie stime e le proprie metodologie di calcolo. Quei numeri e la loro credibilità sono importanti perché continui quel discorso tra i due governi e tra i protagonisti delle due economie senza il quale il fragile equilibrio di interdipendenza tra Pechino e Washington non può reggere.