la Repubblica, 23 settembre 2015
La nemesi dell’arroganza tedesca realizzata dallo scandalo Volkswagen non deve far troppo gioire gli avversari, industriali e politici, della Germania. E, soprattutto, non deve costituire un alibi che induca le altre nazioni o industrie europee a un atteggiamento lassista e autoindulgente. A preservare il fondamentale ruolo della Germania in Europa deve però essere anzitutto essa stessa, mantenendosi all’altezza dei propri parametri di giudizio
I tedeschi sanno bene di che si tratta visto che nella loro lingua c’è un termine, Schadenfreude, praticamente intraducibile in altra lingua, che esprime quello che si prova dinnanzi allo scandalo Volkswagen: la “gioia maligna” che gode delle disavventure e delle disgrazie altrui. Non solo: con una improvvisa capriola l’accadere degli eventi si diverte a sorprenderci.
La Germania che aveva svolto nei mesi scorsi il ruolo del “grande accusatore” si è trovata sul banco degli imputati nello stesso giorno in cui Tsipras il “grande accusato” (e con lui la Grecia) sembra forse esserne uscito. Che poi a far scoppiare negli Usa lo scandalo sia stato un impegnato ambientalista che risponde al nome di John German aggiunge alla vicenda un tono di farsesca ironia visto che la Germania si è sempre vantata non solo di saper costruire (e vendere) le migliori macchine del mondo. Ma anche di essere la “coscienza ecologica” d’Europa e quindi dell’intero pianeta. Il grande imbroglio scoperto in America per truccare i dati di emissione delle sostanze inquinanti delle auto diesel prodotte dalla Volkswagen è un colpo al cuore al “modello tedesco” del quale l’affidabilità degli standard produttivi e delle garanzie delle tecnologie applicate costituisce assieme alla “economia sociale di mercato” e alla Sozialpartnerschaft una componente decisiva. Certo è molto forte la tentazione di vedere in questo scandalo una perfida nemesi che punisce il Paese che si sarebbe reso colpevole nei momenti difficili della crisi finanziaria d’Europa di un imperdonabile peccato di hybris. O addirittura di rallegrarsi dinnanzi al frantumarsi del mito della perfezione tedesca, alla metamorfosi di una Germania sempre meno teutonica e sempre più mediterranea. Come conferma l’ennesimo stop dei lavori di quella storia infinita che è diventata la costruzione del nuovo aeroporto di Berlino. Ma non credo che questo tipo di lettura che potremmo definire di “neoqualunquismo europeista” porti molto lontano: scoprire che la principale industria tedesca abbia imbrogliato non può e non deve diventare un comodo alibi per le altre nazioni o industrie europee. Non può trasformarsi in una sorta di generale “pareggiamento dei conti”, in una specie di notte in cui “tutte le vacche sono grigie”. Per chi abbia davvero a cuore le sorti d’Europa dovrebbe esser chiaro che il danno provocato dal management di Wolfsburg va ben oltre i confini tedeschi e colpisce l’intera Europa visto che dopo il grande sogno di portare pace al Vecchio continente oggi si tratta di costruire una Europa-potenza capace di affermare i suoi valori e le sue conquiste economiche e sociali nella sfida con gli Stati-continente del mondo globale. Si indebolisce l’Europa, dunque, non solo truccando i conti come ha fatto la Grecia ma anche truccando le macchine e inquinando l’ambiente. Nei prossimi giorni sapremo (forse) di più su come è stato possibile che i produttori tedeschi abbiano pensato di poter eludere il controllo delle autorità americane e abbiano sottovalutato l’enorme rischio finanziario e d’immagine. Sapremo (forse) perché questo scandalo sia venuto alla luce nella imminenza di un prolungamento del contratto dell’amministratore delegato della Volkswagen, Martin Winterkorn detto “Wiko”. E questo proprio nei giorni in cui a Francoforte si svolgeva la Iaa, la più grande rassegna automobilistica del mondo. E sapremo (forse) se tutto questo ha a che fare con lo scontro mortale avvenuto nei mesi scorsi al vertice della casa automobilistica. Scontro che si era concluso con la vittoria di Winterkorn e con la sconfitta di Ferdinand Piëch, nipote del mitico Ferdinand Porsche. Quello che comunque già sappiamo è che questo scandalo è un duro colpo per l’intera classe manageriale tedesca ma anche per la classe politica di quel paese. Lo è per la Spd che prima con Helmut Schmidt e poi con Gerhard Schroeder, l’ultimo cancelliere socialdemocratico (del quale in questi giorni è apparsa una monumentale biografia) aveva costruito il mito del “modello tedesco”. E avuto uno dei suoi principali elementi di forza proprio in una “relazione particolare” con il mondo dell’industria automobilistica tedesca. Ma lo è anche per la Cdu e la sua concezione ordo- liberale dell’economia secondo la quale tocca allo Stato controllare e nel caso imporre il rispetto delle regole che altrimenti il “libero mercato” tende sistematicamente a violare. Ma soprattutto lo è per la Cancelliera Merkel che nelle scorse settimane durante la crisi dei profughi pure si era mostrata capace di assumere un ruolo di leadership. Proprio chi giudica essenziale, e chi scrive è tra questi, un ruolo egemonico in senso gramsciano della Germania nel processo di costruzione di una Europa unita deve pretendere che tutta la classe dirigente tedesca faccia completa luce su quanto accaduto. Il rispetto delle regole non è una strada a senso unico. Non vale solo per gli altri ma anche e soprattutto proprio per la Germania.