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 2015  settembre 23 Mercoledì calendario

C’è la globalizzazione alla radice dello scandalo Volkswagen: fino agli anni Ottanta i costruttori di auto ambivano a dominare solo il mercato interno o continentale, mentre dagli anni Novanta, cadute le barriere protezionistiche, le grandi case automobilistiche mirano alla conquista del mondo. Ma quantità e qualità delle auto prodotte non sono andate di pari passo, e la varietà dei parametri di valutazione delle emissioni inquinanti ha contribuito ulteriormente al caos. Prima di Volkswagen, già la Toyota aveva commesso gli stessi errori, ma sembra aver imparato la lezione

Il gigantismo dell’industria dell’auto come destino e come condanna. E la sua intrinseca incompatibilità con gli standard regolatori, spesso eterogenei e confliggenti, diversi da un Paese all’altro, come pietra di inciampo per gli espliciti comportamenti fraudolenti ma anche arma di dissuasione implicita per limitare la concorrenza dei produttori stranieri. Nella caduta di Volkswagen, c’è qualcosa di faustiano. E quel qualcosa di faustiano ha un elemento strutturale, che specifica bene la fisionomia dell’automotive industry internazionale.
La truffa nei software per le emissioni nei motori diesel, l’intervento durissimo degli organismi di controllo e di verifica statunitensi, il rischio della supermulta e delle esposizioni a class action americane in grado di dissanguare – o almeno di indebolire – anche un corpo finora robustissimo come Volkswagen, la fuga degli investitori con la caduta del titolo azionario, la fine del sogno americano per la creazione del primo gruppo globale dell’auto e l’impatto sistemico su un Modell Deutschland non più über alles. Sono tutti elementi di cronaca e sono tutte ricadute politiche che nascono da un romanzo industriale che ha una chiara trama strategica e regolatoria, tecnologica e di finanza di impresa. E la trama ha un cuore preciso: l’ossessione di diventare il primo costruttore al mondo, in grado di dominare sui mercati internazionali. Una ossessione destinata a infrangersi, anche perché sotto il profilo regolatorio i singoli mercati finali sono spezzettati e frammentati, definiti e sanzionati in mille modi diversi nei due campi strategici dell’impatto ambientale e della sicurezza del veicolo.
La tendenza al gigantismo ha rappresentato una costante storica, che si è esacerbata con la globalizzazione. Nel Novecento, il gigantismo dell’industria dell’auto ha avuto una netta radice culturale: il fordismo e il taylorismo, con la loro propensione a costruire corpi integrati verticalmente e ad ambire ad economie di scala in grado di rendere sostenibili gli altrimenti insostenibili costi fissi, hanno delineato un profilo dell’industria dell’auto fatto da aggregati sempre più grandi. Il modello General Motors. Il mito di Detroit. Fino agli anni Ottanta gli Stati Uniti erano gli Stati Uniti, nonostante le prime significative penetrazioni delle case automobilistiche giapponesi. La Francia era la Francia. L’Italia era l’Italia. La Germania era la Germania. Questo, per dire che il livello di integrazione commerciale e industriale fino agli anni Ottanta era relativo: grandi aggregati nazionali, caratterizzati da una naturale tendenza all’espansione dei singoli impianti e all’apertura di nuove fabbriche che veniva ripagata dalla certezza di disporre di quote egemoniche e facilmente difendibili sul mercato interno. Con, in più, un naturale protezionismo – politico e psicologico – che faceva di tutto per preservare il costruttore nazionale – in quasi tutti i Paesi, ad eccezione della Gran Bretagna – dalla possibilità che un concorrente straniero si impiantasse sul suolo nazionale.
Poi, con i primi anni Novanta, è arrivata la globalizzazione. Ed è cambiato tutto. Le case automobilistiche sono diventate giocatori – player, nell’inglese della globalisation – appunto globali. La crescente integrazione dei mercati, con la cadute delle barriere protezionistiche (o perlomeno dissuasive) per i consumatori. La crescita del ruolo dei supplier e della catena della fornitura, composta da un numero crescente di imprese straniere: italiane per i costruttori tedeschi, coreane per quelli americani e così via. Il nuovo circo: l’affanno con cui i singoli Governi hanno menato le danze per convincere, a suon di defiscalizzazioni e di incentivi diretti, i carmakers ad investire nel loro Paese piuttosto che in un altro.
Tutto questo – con il mondo diventato negli ultimi vent’anni il principale palcoscenico al posto del mercato interno o al massimo continentale come era stato nei cento anni precedenti – ha cambiato la prospettiva strategica anche per l’industria dell’auto. Ha imposto un salto di qualità. Il gigantismo di tipo industriale, che ne aveva naturaliter connotato la cifra squisitamente novecentesca, ha assunto anche una cifra strategica. È avvenuta una sorta di mutazione genetica. In cui il numero di auto prodotte – al pari della capacità di coprire tutti i mercati di un mondo insieme sempre più piatto ed articolato – si è trasformato in un simulacro a cui votare ogni cosa: la necessità di investimenti mostruosi e compulsivi (sintetizzata nelle “Confessions of a Capital Junkie” di Sergio Marchionne) e la gestione di processi produttivi sempre più frammentati e condivisi fra diversi costruttori e componentisti di primo livello, ma anche la paura di un cambiamento di paradigma rapido e feroce con cui le auto divengano veicoli di servizi apportati da altri settori (Apple e Google incombenti) e la costruzione di standard regolatori sull’impatto ambientale e sulla sicurezza delle automobili che, invece, tendono alla disomogeneità.
Su quest’ultimo tema l’Unione Europea, gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone, il Canada, il Messico, l’India, il Brasile e la Corea del Sud hanno ciascuno i propri sistemi regolatori. Sulla CO2 e sui consumi le divergenze non appaiono rilevantissime. Appaiono, invece, significative quelle sul PM10 e sugli ossidi di azoto. E, poi, la duplicazione dei livelli: per esempio, negli Stati Uniti anche la sicurezza dell’auto è regolamentata sia a livello federale che a livello statale. Questo coacervo di elementi – insieme costruttivo e distruttivo, vitale e barocco, tecnoindustriale e giuridico regolamentare – va avanti così dagli anni Novanta. Ed è diventata una materia esplosiva quando i management delle case automobilistiche hanno predisposto la miccia dell’ossessione della primazia mondiale. Un portato strategico della globalizzazione che ha cambiato tutto. Oggi General Motors, Toyota e Volkswagen viaggiano intorno alla soglia di 10 milioni di veicoli all’anno. Il sogno infranto di Volkswagen non è nuovo. La prima casa automobilistica a perseguire un disegno egemonico e di primazia assoluta è stata la Toyota. Che, pochi anni fa, nel pieno dell’inseguimento e del superamento di General Motors, fra temi regolatori e problemi di caduta del controllo qualità rinunciò all’eccellenza del suo modello industriale, sacrificandolo agli “eccessi” produttivi. E, non a caso, Toyota è tornata sui suoi passi. Nella strategia industriale e nella psicologia strategica. Fino a specificare – con un afflato quasi scaramantico – nella nota a commento dei risultati del primo trimestre del 2015, che assegnavano alla casa automobilistica giapponese il primato delle vendite mondiali, il suo disinteresse per la leadership mondiale e il suo semplice interesse per la fabbricazione di buone auto.