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 2015  settembre 23 Mercoledì calendario

Jeff Koons espone a Firenze, tra i capolavori del Rinascimento: «Così sfido a casa loro Michelangelo e Donatello». Da venerdì 25 settembre, due sculture dell’artista statunitense verranno esposte a Firenze, nella Sala dei Gigli in Palazzo Vecchio e in piazza della Signoria. «Sono un romantico, che crede in una visione umanistica dell’arte. Perciò mi rivolgo alla cultura greca e a quella romana. Penso che il mio mestiere possa essere anche un mezzo per aiutare a comprendere come si viveva nel passato e per capire chi siamo»

Jeff Koons e il Rinascimento. Da venerdì 25 settembre, due sculture dell’artista statunitense verranno esposte a Firenze, nella Sala dei Gigli in Palazzo Vecchio e in piazza della Signoria (in una mostra curata da Sergio Risaliti e organizzata da Fabrizio Moretti): Gazing Ball e Pluto and Proserpina saranno posti in dialogo con capolavori di Donatello e di Michelangelo.
Si tratta di un approdo per Koons, tra le personalità più controverse della nostra epoca. Secondo alcuni critici, un disinvolto banditore di se stesso, un cinico conoscitore delle regole del marketing, stanco epigono di Warhol, abile nel valorizzare i suoi «feticci», tra le più potenti espressioni del declino dell’arte contemporanea verso i territori scivolosi del kitsch.
Eppure, dietro la superficie di questo «fenomeno» si celano ragioni più complesse. Certo, siamo dinanzi a un artista che ha fatto dell’impersonalità il tratto distintivo del suo linguaggio. Cronista della civiltà dei consumi, Koons si propone di sublimare il superfluo. Sorretto da una forte sensibilità sociologica – sin dagli anni ottanta – preleva palloni da basket, ciondoli, bambole, orsacchiotti. Li sottrae al loro destino effimero, conducendoli verso una bellezza seriale e senz’anima. Poi, li ingigantisce, affidandone l’esecuzione a un team di artigiani e di ingegneri. Infine, per compiere una sorta di estasi del banale, li ripone in spazi senz’aria. Sembra così compensare la perdita d’aura dell’opera d’arte sancendo il trionfo del falso incanto della merce.
Il desiderio di portare quel che è estraneo all’universo estetico verso una dimensione «assoluta», dall’inizio degli anni novanta, è stato declinato in modo più sofisticato. Senza mai rinnegare la sua vocazione pop, questo disincantato postmodernista si fa affascinare dalla necessità di ri-guardare figure e motivi della storia dell’arte, senza tormenti né inquietudini: li tratta come icone prive però di uno spessore storico e simbolico. Per un verso, idealizza quei modelli, consegnandosi alla pratica della citazione; per un altro verso, li sfida; per un altro ancora, li de-sublima, apportando spesso lievi modifiche.
È quel che si può cogliere in vari passaggi della recente vicenda poetica di Koons. 2009, Antiquity : assemblaggi fotografici nei quali convivono resti archeologici e pezzi di corpi contemporanei. E ancora, le sue personali. Versailles 2008 e Liebieghaus di Francoforte 2012: alcune sue monumentali sculture neo-neoclassiche sono poste in corrispondenza con le opere custodite nelle sale di quei luoghi, suggerendo sfioramenti tra epoche lontane. E adesso Firenze. Sala dei Gigli a Palazzo Vecchio: lì è esposta Gazing Ball (2013), calco in gesso del Fauno Barberini di età imperiale, un blocco cui l’artistar ha aggiunto una sfera specchiante di colore azzurro brillante, che – archetipo della perfezione del cosmo – è sistemata sulla coscia sinistra del giovane Fauno, in una posizione instabile, riflettendo il contesto circostante. Piazza della Signoria: lì si trova Pluto and Proserpina (2010-2013), omaggio al Ratto di Proserpina di Bernini. Alta più di tre metri, in acciaio inox, lucidata a specchio, con una cromatura dorata, quest’opera mostra due figure strette in un abbraccio sensuale e drammatico che dialogano a distanza con la copia in marmo del David di Michelangelo e che, grazie alla loro patina splendente, sottolineano una netta distanza dalle altre sculture collocate nella piazza.
Dietro la volontà di Koons di tornare al confronto con la storia dell’arte e di tenere mostre presso prestigiosi siti si nascondono tante intenzioni. Il desiderio di sottrarsi alla rappresentazione dei prodotti della civiltà dei consumi. Ma forse anche il bisogno di usare quei siti come riserve auree, indispensabili per legittimarsi sul piano intellettuale.
Muoviamo da un rilievo di Jerry Saltz che, a proposito del mercato dell’arte, ha scritto: «È una macchina fotografica, è così stupido che crede a tutto quello che gli si para davanti».
«In ogni ambito della nostra vita esistono diverse tipologie di mercato. All’interno del sistema dell’arte ci sono tante economie: ad esempio, per venire incontro a chi ama la pittura astratta e a chi preferisce la figurazione. Il mercato tiene conto della domanda dei fornitori, delle specificità estetiche, dei gusti della comunità. È imperfetto, manovrabile, talvolta irrazionale».
A un primo sguardo, le sue opere sembrano sottolineare il bisogno di portarsi al di là del concettualismo, per avviare un «pellicolare» confronto con le forme del mondo. Si considera un realista?
«Sono un romantico, che crede in una visione umanistica dell’arte. Perciò mi rivolgo alla cultura greca e a quella romana. Penso che il mio mestiere possa essere anche un mezzo per aiutare a comprendere come si viveva nel passato e per capire chi siamo; per informarci sul nostro “potenziale” come individui e sulle possibilità che abbiamo per proiettarci verso il futuro».
Nel corso degli anni, spesso ha «replicato» figure e icone che rinviano al nostro presente. Come le ha scelte?
«Mi sono comportato in maniera intuitiva. Non c’entra il talento. Sa, non ritengo che gli uomini abbiano un talento innato, magari nascono con una certa propensione a guardare il reale secondo una determinata prospettiva. Nella vita, l’unica cosa che si può fare è credere in se stessi: assecondare e seguire i nostri interessi. Se si crede in se stessi, si può guardare dentro di sé e poi rivolgersi all’esterno. Se ci si concentra su di sé, si possono raggiungere le vette della metafisica: ci si connette a qualcosa di più grande dell’io, ci si collega a un vocabolario universale. È solo allora che puoi viaggiare attraverso il tempo e parlare con i tuoi “eroi”: Velázquez, Goya, Manet, Picasso».
Che relazione c’è, nel suo lavoro, tra la fase dell’ideazione e quella dell’esecuzione?
«Quando mi accorgo che alcune cose mi incuriosiscono, mi concentro su di esse. Poi, è naturale creare connessioni tra queste cose, le mie idee e qualcosa d’altro. È un processo istintivo».
Per solennizzare l’ovvio, lei ricorre a originali stratagemmi neo-barocchi. Pur se pesanti, fatte in materiali solidi e duraturi come l’acciaio, le sue sculture appaiono leggere, soffici.
«Più il tuo lavoro presenta poli antitetici più imita la vita: più è tridimensionale più replica l’esistenza. Pensi alle sculture antiche, nelle quali si pongono in equilibrio energie diverse: la luce e il buio attraverso le ombre. La leggerezza, il moto della forma, il peso del corpo con un piede sollevato e l’altro no: percepisci la levità e, insieme, la densità. La bellezza deriva da questa dialettica tra gli opposti».
Le sue sculture potrebbero essere interpretate anche in una chiave metafisica. Resi monumentali, isolati dall’ambiente circostante, i suoi soggetti sembrano galleggiare nel niente. Si sente un neo-metafisico? Conosce l’opera di de Chirico?
«È interessante la sua lettura. Scegliere di servirsi di alcune immagini e oggetti, per me, equivale a dire: tutto è qui. Ogni cosa è già perfetta nella sua essenza. L’arte si dà come reazione emotiva e intellettuale generata dalla nostra interazione con un’immagine o con un oggetto. Ma è anche sospensione di giudizio. Come ci ha insegnato de Chirico. Mi piacciono i suoi quadri: mi hanno influenzato; sovente ne discuto con i miei amici. La scorsa settimana ero in Grecia e siamo volati sopra un parco nel Peloponneso dove c’era un edificio progettato da suo padre, che era ingegnere».
Quali artisti italiani la interessano?
«Molti. Artisti italiani, ma anche artisti che sono stati notevolmente affascinati dalla cultura italiana. Come Poussin, tra i miei preferiti. E poi: i maestri del Rinascimento, come Donatello, Michelangelo e Leonardo. I futuristi. E Manzoni».
Nel suo pantheon ha incluso Picasso, di cui ha elogiato lo stile. In che modo l’eversiva soggettività picassiana ha orientato la sua ricerca che tende verso l’oggettività?
«Il mio riferimento imprescindibile è Duchamp: la mia idea di un’arte oggettiva deriva dai suoi ready made. Picasso era una persona molto creativa: l’arte, per lui, deriva dalle sue esperienze private e sentimentali. Mi attraggono soprattutto le sue opere degli anni sessanta: quadri che hanno una mirabile consapevolezza. La sua irrefrenabile energia senile mi ha trasmesso un incredibile senso di libertà: è riuscito a rendere oggettivo quel che è soggettivo; seguendo l’intuito, ha raggiunto la trascendenza».
Infine, la scoperta della classicità: le sue sculture ispirate a modelli antichi, le sue mostre allestite presso musei e luoghi storici. Come si spiega questa scelta?
«Credo che la mia identità sia cambiata dopo l’incontro con le sculture antiche e con le opere di Michelangelo, Giotto Velázquez, Poussin, Manet, Picasso. Il modo in cui si percepisce il mondo è diverso alla luce di queste scoperte, che generano un moto interiore. Io credo in questi legami a distanza: voglio metterli in connessione tra loro, collegandoli in una specie di famiglia allargata. È ciò che mi piace della storia: ci istruisce sul passato e quando si capisce il passato si può avere una migliore comprensione di chi siamo davvero, arrivando a mettere un piede nel futuro».
Parliamo ora della sua mostra fiorentina. Che rapporto ha stabilito tra le sue sculture e quelle di Donatello e di Michelangelo?
«Sono elettrizzato. Avere l’opportunità di esporre accanto a Donatello e a Michelangelo è emozionante, ma difficile. Da sempre rifletto su Donatello. Mentre nell’antichità le sculture erano policrome, egli è stato tra i primi a promuovere un nuovo classicismo: la scultura doveva essere un linguaggio autonomo rispetto alla pittura e perciò monocromo».
Provi a definirsi. Si considera un postmoderno classico?
«Non saprei che significato dare a questi concetti. Per me, postmoderno è sinonimo di oggettività, ove per oggettività intendo lo stato più elevato cui possiamo pervenire imparando ad accettare il presente. Mentre classico è sinonimo di gradimento e di apprezzamento del passato. Non riuscirei mai a definirmi».