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 2015  settembre 23 Mercoledì calendario

Lo scandalo Volkswagen imbarazza Berlino, ma se il governo Merkel ne era al corrente si appanna anche l’immagine del Paese garante della stabilità europea. Nelle imprese protette dallo Stato gli equilibri si basano su rapporti di potere trasversali. Ecco chi è l’ingegnere tedesco che ha messo Wolfsburg nei guai

Pare dunque che il governo di Berlino sapesse che qualcosa non funzionava nei test sulle emissioni delle auto tedesche. Quei test che, per sua stessa ammissione, sono stati usati dalla Volkswagen per ingannare le autorità di controllo ambientale americane e fare credere loro che i gas di scarico fossero meno tossici di quanto effettivamente erano.
Ieri sera il quotidiano Die Welt ha rivelato una risposta scritta del ministro dei Trasporti Alexander Dobrindt a un’interrogazione dei Verdi del 28 luglio scorso. Nell’interpellare il ministro, i deputati ecologisti chiedevano spiegazioni sul meccanismo che consente ad alcune case automobilistiche di ridurre il livello di emissioni durante i test rispetto a quella che è la realtà su strada. La risposta pare sia stata non una negazione del fatto ma che egli condivideva l’idea della Ue secondo la quale la pratica non fosse stata finora «applicata in modo estensivo». In realtà, ieri, Volkswagen ha comunicato di avere installato l’apparecchiatura ingannevole su 11 milioni di auto. Dobrindt aggiungeva che il governo tedesco avrebbe lavorato in collaborazione con Bruxelles per migliorare la situazione. Scoppiato lo scandalo, lunedì ha annunciato una commissione d’inchiesta.
Al momento non è dato sapere se gli elementi a conoscenza del governo tedesco fossero tali da fare ritenere che si fosse in presenza di un raggiro. Le idee gli sono però state chiarite dall’Epa, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente americana, che ha ordinato alla Volkswagen di ritirare 500 mila auto diesel e che, assieme al dipartimento della Giustizia, sta aprendo una procedura criminale contro la Volkswagen. Se si tratti di connivenza o di leggerezza del governo di Berlino sarà da vedere. Entrambi i casi, però, rivelano una tendenza a volere la Germania come sistema chiuso e protetto, nel quale i grandi gruppi industriali (e dei servizi) godono come minimo dell’occhio benevolo del sistema politico. Il fatto che una truffa di questa portata, che tra l’altro fa vacillare il primo gruppo industriale del Paese, sia stata rivelata in America e non in casa deve fare arrossire.
Alla base, c’è un’idea che somiglia a quella di Fortezza Germania. Tanto è liberale nella macroeconomia, sul non volere andare in deficit di bilancio, quanto il governo di coalizione è chiuso e spesso protezionista nella difesa dei suoi campioni nazionali. Di tutti quelli dell’industria auto, per i quali Angela Merkel ha fatto una pesante lobby a Bruxelles affinché le emissioni delle auto di alta cilindrata, cioè tedesche, fossero poco penalizzate. Di altri campioni dell’ingegneria e della chimica, che la cancelliera porta in giro per il mondo nei suoi viaggi «commerciali». Ma soprattutto nei servizi, dai trasporti al commercio, dalle assicurazioni alle poste, la protezione di Stato rimane elevatissima. Il sistema di governance delle grandi imprese, centrato sulla codeterminazione con i rappresentanti sindacali, chiude il cerchio di un sistema poco trasparente, fondato sui rapporti di potere e suscettibile di commettere errori e addirittura reati in quanto non controllato dal pubblico e dai mercati ma da una sorta di Grande Coalizione degli interessi che tiene insieme business, politica nazionale e locale, sindacati, finanza.
Negli anni passati, gli scandali hanno spesso scioccato l’opinione pubblica tedesca che, in fatto di corruzione, riteneva le sue imprese più bianche della neve. La Volkswagen visse una decina d’anni fa lo scandalo di manager che rifornivano alcuni membri sindacalisti del consiglio di sorveglianza del gruppo con denaro e prostitute munite di Viagra. In cambio di voti nel consiglio stesso, nel quale i rappresentanti dei lavoratori hanno la metà delle poltrone, in ossequio al modello della codeterminazione. La Siemens, altro campione nazionale, meno di dieci anni fa ha dovuto affrontare una gravissima crisi perché suoi dirigenti corrompevano all’estero e in casa (ancora sindacalisti). Deutsche Telekom, Deutsche Post, Deutsche Bahn, Lufthansa – con rapporti strettissimi col governo se non controllate – si permettevano di spiare dipendenti, giornalisti, sindacalisti o membri dei loro consigli di amministrazione. L’elenco sarebbe lungo ma sempre riporta a imprese protette dallo Stato, poco visibili ai mercati e quindi non controllate, convinte di potere fare ciò che vogliono, anche sciocchezze. Che possono essere monumentali, come sta imparando la Volkswagen.

Danilo Taino


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Tutto è cominciato con una ricerca sponsorizzata dell’International Council on Clean Transportation (Icct), un’organizzazione indipendente non profit poco conosciuta al grande pubblico che ha la missione di migliorare la qualità dell’aria monitorando le emissioni dei mezzi di trasporto. Per uno strano scherzo del destino l’idea all’origine dello scandalo che sta travolgendo il colosso Volkswagen e sta facendo perdere la faccia alla Germania è venuta proprio a un tedesco, Peter Mock, direttore generale responsabile dell’Icct in Europa e con ufficio a Berlino. E, ironia della sorte, la sua controparte americana, si chiama German, per la precisione John German. Osservando che quando erano sottoposti ai test europei sulle emissioni i modelli diesel della Passat, della Jetta e della Bmw X5 si comportavano in modo molto diverso su strada e in laboratorio, l’anno scorso Mock ha suggerito al collega German di ripetere i test negli Stati Uniti, dove gli standard per le emissioni sono più severi che nel resto del mondo, e i controlli più rigorosi. L’obiettivo? Dimostrare agli europei che è possibile costruire vetture diesel più pulite. Il risultato, come sappiamo, non è stato ben diverso dalle attese. E ha dato inizio alla catena di eventi che ha costretto Volkswagen ad ammettere di aver montato tra il 2009 e il 2015 dei software illegali sui motori diesel di sei modelli del gruppo, per manipolare le emissioni durante i test in laboratorio: 500 mila negli Stati Uniti, 11 milioni in tutto il mondo.
Per la cronaca: nei test condotti nel 2014 dall’Icct in un laboratorio della West Virginia University, le emissioni della Bmw X5 sono risultate inferiori o uguali ai limiti consenti per legge). La dimostrazione che la tecnologia per rispettare gli stringenti standard americani sulle emissioni esiste.
Giuliana Ferraino