il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2015
Il camaleontico Pietro Grasso, che ogni santo giorno si esibisce in sofisticati numeri di equilibrismo centrista per arrivare a sera. Eletto grazie a Bersani, dapprima tacciato di servilismo verso il governo Renzi e poi pubblicamente minacciato dallo stesso presidente del Consiglio, per evitare di essere associato alla grottesca minoranza del Pd ha infine patrocinato l’accordo sul Senato tra le due fazioni del partito. Tutto, pur di non essere uno dei cadaveri politici tirati a riva dal premier
Impossibile dare un colore a Pietro Grasso. Appena l’altro giorno, inseguito dalle minacce renziane in pubblico, ha fatto sapere che lui non temeva “neppure la mafia”, da magistrato. Ieri, invece, la sua improvvisa aura di presunto eroe della Costituzione si è schiantata sulla moral suasion messa in atto per arrivare a quel benedetto accordo tra maggioranza e minoranza del Pd e che lo tirerebbe fuori dai pasticci.
Perché Grasso è così e in questa partita mortale del Senato non vuole essere uno dei cadaveri politici tirato a riva dal premier. I bersaniani lo sanno e forse anche per questo, sempre l’altro giorno, non l’hanno difeso coralmente dalle invettive di Renzi sull’articolo 2. E Grasso stesso, poi, non vuole per nulla associare la sua immagine alla minoranza del Pd trasfiguratasi ormai in una grottesca sinistra dei commi, e non delle piazze o dei girotondi. Di qui l’equilibrismo centrista che ogni santo giorno il presidente del Senato, siciliano, cerca di praticare per arrivare a sera.
Quando in queste settimane di pantano sull’articolo 2, i renziani hanno paventato il peggio, da perfetti dietrologi malati di retroscenismo hanno fatto circolare la voce sull’ambizione di Grasso di andare a Palazzo Chigi a capo di un governo istituzionale, dopo l’eventuale affossamento delle riforme.
Adesso invece il boatos riguarda un presunto trasloco alla Corte costituzionale, già però rifiutato da Grasso. È un’indiscrezione ciclica e la prima volta risale alla scorsa primavera.
In realtà nessuno si fida del presidente del Senato, nonostante la tendenza a dissimulare neutralità. Neanche il presidente emerito Napolitano. Un mese fa, Grasso provò immaginare un Senato delle garanzie, giusto per non passare alla storia come l’ultimo mohicano a presiedere Palazzo Madama, e l’emerito lo stroncò con un articolo sul Corriere della Sera. Del resto, Re Giorgio, rimasto monarca, c’è l’ha con il magistrato palermitano per la nota vicenda delle intercettazioni sulla trattativa Stato-mafia. Napolitano si sarebbe aspettato di più, come collaborazione, ma anche allora Grasso fu bravo a rimanere immobile e neutrale.
Su di lui si sono abbattuti gli strali renziani a mo’ di guerra preventiva, ma per un anno intero è stato bersaglio degli antirenziani per il motivo contrario, cioè eccesso di servilismo verso il governo. C’è da dire, in sua difesa, che è la prima volta che un presidente del Senato si trova nel mezzo di una guerra tra due fazioni dello stesso partito. Eletto nel 2013, durante la gestione bersaniana del Pd, Grasso fu strappato ai centristi montiani con la promessa di fare il Guardasigilli nel pronosticato, e mai nato, governo Bersani.
È arrivato alla seconda carica dello Stato nello spazio di una notte, dopo che la Ditta decise di accantonare la designata Anna Finocchiaro. Chissà se ancora pensa quello che provò a gennaio, quando fu capo dello Stato supplente per le dimissioni di Napolitano. Si congedò dai senatori così: “Mi mancherete”.