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 2015  settembre 22 Martedì calendario

L’opera italiana conquista la capitale dell’Oman: a Muscat, nell’unico teatro attivo in un Paese musulmano, pubblico entusiasta per Verdi e Puccini. Non manca, ovviamente, qualche precauzione per non urtare la sensibilità islamica: niente nudi né vino in scena, e un pudico alone di mistero sul mestiere di Violetta

Ascoltare un tenore bavarese che canta Core ’ngrato (e dandoci dentro anche parecchio con la sceneggiata) mentre sulla spalliera della poltrona scorre, da destra a sinistra, la traduzione in arabo del testo napoletano, è la prova che la cara vecchia opera lirica regge benissimo la sfida della globalizzazione. Anzi, la vince.
La conferma arriva da Muscat, capitale dell’Oman, in fondo a destra nella penisola arabica, e dalla sua bellissima Royal Opera House, inaugurata nel 2011, fuori uno ziggurat babilonese, dentro un ambiente di rara bellezza, con sfarzo di marmi e legni pregiati ma senza pacchianerie, in una cultura dove l’idea che «less is more» non è ancora penetrata. E in più con un palcoscenico all’avanguardia e un’acustica perfetta.
Debutto di stagione
L’inaugurazione stagionale, mercoledì, è stata affidata a un recital con orchestra del tenorissimo Jonas Kaufmann, il bavaro-partenopeo di cui sopra, che ha dimostrato di non essere soltanto bello, come dicono i detrattori, ma anche molto bravo, come dice chi ha le orecchie, inanellando con vocalità smagliante una serie di hit operistiche con gli inevitabili bis canzonettari e operettistici.
A seguire, il giorno dopo, il concerto per il trentennale della Royal Oman Symphony Orchestra, con le musiciste velate (anche la timpanista è donna) e un programma patriottico aperto dall’Inno nazionale e proseguito con brani di autori omaniti o dedicati all’Oman, compresa una prima assoluta di Bernd Redmann, Bridge To Oman (appunto).
Pubblico, in entrambi i casi, non oceanico ma molto partecipe, più o meno equamente diviso fra stranieri e locali, questi ultimi elegantissimi nel costume tradizionale, il lungo dishdash bianco con un turbante di cachemire.
A parte quello del Cairo, di lunga tradizione dall’Aida in poi ma soggetto alle ricorrenti incertezze politiche egiziane, quello di Muscat è l’unico teatro d’opera funzionante in un Paese arabo. In questa regione difficile, del resto, l’Oman sembra una felice eccezione: ricco grazie al petrolio, è stabile politicamente, con un Sultano illuminato e amatissimo, Qaboos Bin Said, che regna da 45 anni e ha costruito praticamente tutto quello che si vede, Opera compresa. Muscat è una Zurigo con le palme, più ordinata, pulita e sicura di qualsiasi città italiana. E, benché lo Stato sia islamico, c’è tolleranza religiosa (il Sultano, appassionato d’organo, ne ha regalato uno a una chiesa cattolica) e le donne guidano, lavorano e fanno politica.
Infatti l’Educazione superiore ha una ministra, Rawya Saud Al Busaidi. È lei che spiega perché l’Oman abbia voluto un teatro: «Abbiamo investito moltissimo nella tutela del nostro patrimonio, ma vogliamo aprirci a tutte le espressioni culturali. Non c’è solo l’opera, insegniamo la musica nelle scuole, sia quella tradizionale che quella occidentale. L’Islam? Nel teatro non c’è contraddizione con gli insegnamenti della nostra religione. Certo, stiamo attenti che nessuno si senta offeso da quel che si vede in scena e, come in ogni società, c’è chi non è d’accordo. Ma la maggior parte degli omaniti sono favorevoli. La cultura, per noi, è un aspetto dello sviluppo». Insomma, in Oman si dice quel che si dice in Italia. Solo che qui lo mettono anche in pratica. Infatti accanto al teatrone ne stanno costruendo un altro da 500 posti.
Naturalmente, dici opera e pensi all’Italia (e viceversa). Infatti il direttore artistico è italiano, Umberto Fanni. E in stagione quattro titoli d’opera su cinque sono italiani e in produzioni made in Italy: arriveranno l’Arena, il Carlo Felice, la Fenice e il Massimo di Palermo (e la Staatsoper di Vienna): «Verdi e Puccini sono gli autori che piacciono di più», dice Fanni (come al resto del mondo, aggiungiamo noi) -. Però non facciamo solo opera italiana e nemmeno solo opera, ma anche balletti, concerti, jazz, world music e musica araba».
Finora le produzioni sono state tutte importate (e spesso anche importanti). La scommessa è iniziare a realizzarle «in casa»: «Lo faremo dalla prossima stagione. Già adesso circa il 30% del personale del teatro è omanita, formato all’estero», come i due macchinisti che sono andati a imparare il mestiere allo Sferisterio.
Con il pubblico, è ovvio, qualche precauzione è indispensabile: in scena non ci sono nudi in scena e le traduzioni, rigorosamente analcoliche («Versiamo un po’ di bevanda nell’acqua del Tamigi», cantò Falstaff), non spiegano nel dettaglio, per esempio, che mestiere faccia Violetta. «Si lavora benissimo, senza stress. Forse anche perché i sindacati non ci sono...».