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 2015  settembre 22 Martedì calendario

Il rebus della riforma delle pensioni: come introdurre la flessibilità nel sistema previdenziale senza gravare sul deficit, per non incorrere nella censura di Bruxelles? Diverse le ipotesi al vaglio del governo. La soluzione, forse, sarà l’ennesimo "contributo di solidarietà"

Un vero rebus. Quasi un ossimoro, una contraddizione in termini. La riforma delle pensioni, ha spiegato Matteo Renzi, si farà solo se c’è il modo di non caricare costi sui conti pubblici. Una linea condivisa, o per meglio dire fortemente sostenuta, anche dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che sulla sostenibilità del sistema previdenziale italiano ha gli occhi puntati di Bruxelles. Il punto è che introdurre flessibilità nel sistema previdenziale ha per definizione un costo. Questo perché nella contabilità nazionale è previsto che un certo numero di persone lavorino fino a 66 anni passati e, fino a quell’età, continuino a versare contributi. Mentre solo una volta compiuti gli anni per il ritiro, l’Inps cominci a pagare la pensione. Se viene anticipata l’età, se anche l’assegno fosse “penalizzato”, nell’immediato l’Inps incasserebbe meno contributi e dovrebbe versare più pensioni, seppure di ammontare ridotto. Questo sbilancio iniziale deve essere coperto. Ma quanto costa? Questo dipende dalle proposte. Alcune stime le ha fatte proprio l’Inps. La prima ipotesi sul tavolo è quella Damiano-Baretta, che prevede la possibilità di lasciare in anticipo il lavoro fino a quattro anni, dunque al compimento dei 62 anni, con una penalizzazione del 2% l’anno (8% al massimo). Secondo i calcoli dell’Inps il costo per le casse dello Stato sarebbe di 8,5 miliardi di euro. Questa stima è però contestata dagli autori della proposta. La ragione è che l’Inps considera l’ipotesi che tutti decidano di anticipare la pensione a 62 anni, mentre sarebbe plausibile che qualcuno decida anche di continuare a lavorare. Insomma, secondo Damiano e Baretta il costo reale sarebbe meno della metà di quello stimato dall’Inps. La seconda ipotesi è quella di una estensione dell’opzione donna, ossia della possibilità per le lavoratrici di lasciare l’impiego a 57 anni con 35 di contributi. Questa opportunità dovrebbe scadere alla fine di quest’anno. Ma il condizionale è d’obbligo, perché proprio l’Inps, con una sua circolare, ha stabilito di accettare solo le domande arrivate entro la fine dell’anno scorso. Comunque sia, allungare fino al 2023, ossia per altri sei anni, l’opzione donna, avrebbe secondo l’Istituto di previdenza, un costo di 2 miliardi di euro.
LE IPOTESI
Ma quanto potrebbe costare invece l’ipotesi che si sta facendo strada nel governo di consentire l’uscita anticipata solo a determinate categorie e con una penalizzazione massima del 10%? «Se l’età per l’anticipo fosse fissata a 63 anni con 35 di contributi e la platea limitata alle donne con figli, agli ultimi esodati e agli inoccupati in forte disagio economico», spiega Alberto Brambilla, ex sottosegretario al Welfare e presidente del comitato scientifico di Itinerari previdenziali, «il costo alla fine potrebbe essere inferiore al miliardo di euro». Questo miliardo circa, sempre secondo le intenzioni del governo, non dovrebbe comunque pesare sul deficit, ma trovare copertura all’interno dello stesso sistema previdenziale. Tradotto potrebbe voler dire un nuovo contributo di solidarietà. Oggi già ne esiste uno per le pensioni più alte, quelle sopra i 90 mila euro, che a 200 mila euro arriva fino al 15%. Bisognerebbe trovare altre strade, come per esempio ricalcolare le pensioni di alcune gestioni che hanno ottenuto in passato trattamenti più generosi. Tecnicamente fattibile ma politicamente complesso.
LE PREVISIONI
Intanto l’Ufficio parlamentare di bilancio ha validato le stime del Def. Il quadro tendenziale delineato, spiega l’ufficio presieduto da Giuseppe Pisauro, è «in linea» per 2015 e 2016 con le stime dell’Upb. Ma «i fattori di rischio insiti nel tendenziale divengono maggiormente evidenti negli anni successivi». Nel 2017 e 2018 la crescita stimata dal Mef (1,3% nei due anni) supera il limite superiore del range dei previsori utilizzati dall’Ufficio parlamentare di bilancio (in media 1,2%).