la Repubblica, 21 settembre 2015
L’odissea del piccolo Abdul, tredicenne afghano approdato a Kos dopo quattro mesi di peregrinazioni, tra miseria e solitudine, orchi e benefattori. «Adesso sento che ce l’ho quasi fatta, che il peggio è dietro alla mie spalle»
L’hanno prima derubato i briganti, appena lasciato il suo villaggio nelle montagne dell’Afghanistan. Poi gli hanno sparato contro i soldati, mentre attraversava la frontiera con l’Iran. E, in Turchia, gli orchi hanno più volte tentato di violentarlo. Ma Abdul, 13 anni, partito da solo per raggiungere il sogno europeo, non s’è ancora arreso. «Sono in viaggio da quattro mesi, e da allora vivo di elemosina e di piccoli furti, dovendomi sempre difendere da mille pericoli, ma adesso sento che ce l’ho quasi fatta, che il peggio è dietro alle mie spalle», dice il ragazzo appena sbarcato sull’isola greca di Kos, primo approdo europeo per migliaia di profughi in arrivo dalla Turchia. L’incredibile avventura di questo Oliver Twist afgano ce la segnala un’assistente sociale alla stazione di polizia di Kos: «Se sta cercando una storia da raccontare vada a parlare con quel bambino, perché la sua è davvero commovente». Lo troviamo lungo le antiche mura del porto, disteso su una panchina che per qualche giorno sarà il suo domicilio. Non ha bagaglio con sé: un trafficante turco glielo ha fatto lasciare a terra prima di imbarcarlo a Bodrum, e lui non ha avuto la forza di opporsi a questa prepotenza. È molto magro, al limite della malnutrizione, conseguenza di mesi di fughe, di fatiche e di accattonaggio, eppure Abdul sembra più adulto dell’età che ha. All’inizio è restio a parlare, perché probabilmente ha imparato a non fidarsi degli sconosciuti. Poi, però, comincia a raccontare la sua epopea ed è un fiume in piena. «Il mio è un villaggio di pastori, tra Kabul e Bamyan, e ogni primavera viene riconquistato dai Taliban che ci rubano quel poco che riusciamo a mettere da parte. Mio padre è morto due anni fa, e da allora viviamo in grande miseria. A partire mi ha spinto mio fratello maggiore, che mi ha detto: “Sei nato e cresciuto in un Paese in guerra, non vorrai anche morirci”». Nonostante la magrezza, Abdul è un bel bambino, dai tratti delicati. Ma la sua avvenenza è stata per lui una maledizione. «Ogni volta che posso m’imbarco con altri gruppi di profughi, i quali mi accettano volentieri, anche quando non sono afgani. Il problema è la sera: le famiglie si riuniscono per dormire, e io resto da solo. O peggio, alla mercé di chi vuole approfittare di me. Più di una volta mi sono dovuto difendere con questo», racconta, mostrandoci un temperino. «Ma spesso sono costretto a scappare, in piena notte, per trovare un rifugio più sicuro», ammette il ragazzino. Il suo viaggio gli ha anche regalato alcune straordinarie sorprese. A giugno, appena entrato in Turchia, si prende una brutta influenza con febbre, vomito e forti emicranie. «Ero in una zona di montagna, con un gruppo di pachistani. Ci siamo fermati per due giorni in un bosco, perché pioveva a dirotto. La notte faceva ancora molto freddo e mi sono ammalato. Il terzo giorno, quando m’è salita la febbre, ho perso i miei compagni di viaggio perché non riuscivo a camminare abbastanza in fretta. A un certo punto credo anche di essere svenuto. Quando mi sono ripreso ho chiesto aiuto alla prima fattoria che ho incontrato. Sono stato accolto da gente meravigliosa». Gli occhi di Abdul si riempiono di lacrime. «Era come stare a casa mia», racconta. «La madre di quella famiglia turca mi trattava come un figlio, coccolandomi e preparandomi cibi squisiti. Sono rimasto dieci giorni da loro. A un certo punto ho quasi pensato che di potermi fermare lì. Ma poi ho ricominciato il mio viaggio». Sul suo cammino, il ragazzo dice di aver incontrato un altro benefattore, a Istanbul stavolta, la prima grande metropoli che gli è capitato di visitare. Nella capitale turca, Abdul s’era sistemato sotto al ponte di una ferrovia. Un giorno si siede stanco e affamato davanti a un ristorante, dal quale poco dopo esce un anziano signore che gli si avvicina e gli mette in mano due banconote da cento lire turche, l’equivalente di quasi 60 euro. «Incredibile! Non stavo neanche chiedendo l’elemosina. Mi ha guardato ed è scomparso. Ricorderò per sempre il suo sorriso». Anche se consapevole di aver percorso più della metà della strada verso l’Europa ricca, Abdul sa che per lui le difficoltà non sono ancora finite. In queste ultime settimane, in Germania sono già arrivati 4mila migranti minorenni. La maggior parte dei quali stremati come Abdul, e quasi tutti senza un centesimo. «Ma io non voglio andare in Germania: la mia meta è l’Olanda», dice il giovane afgano. Ma perché proprio in Olanda?, gli chiediamo. «Perché lì almeno non ci sono montagne, che per me significano solo freddo e miseria».