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 2015  settembre 21 Lunedì calendario

Cyberguerra, una tregua è vicina. Alla vigilia della visita del presidente Xi Jinping a Washington, Usa e Cina sembrano vicini a un accordo per il controllo delle armi informatiche che allontani lo scenario di un’Apocalisse digitale. Ma l’intesa non riguarderà lo spionaggio “a proprietà intellettuale”

L’incubo di una “Apocalisse digitale”, per quanto remoto possa sembrare, è sempre stato uno degli scenari più temuti dagli esperti americani di sicurezza nazionale. Una guerra cibernetica non significa soltanto reti cellulari azzerate, o connessioni impossibili dal pc casalingo; vuol dire anche colpire sistemi informatici di banche, impianti atomici, ospedali, trasporti. Mettere in ginocchio un Paese – per quanto potente come gli Stati Uniti d’America – è molto più facile di quanto si possa pensare. Basta conoscere il codice giusto, sapere quali sono le vulnerabilità del sistema-bersaglio (e ce ne sono sempre) e premere un pulsante. Si possono fermare sale operatorie, treni della metropolitana, si possono disturbare aerei in volo. Per questo molti hanno tirato un sospiro di sollievo nell’apprendere che Usa e Cina sono vicini a un accordo su quello che sarà considerato il “primo trattato di pace del cyberspazio”.
In termini geopolitici, può essere considerato l’equivalente del primo accordo per la riduzione degli armamenti nucleari, gli ormai storici START (Strategic Arms Reduction Treaty). In fondo, c’è una nuova guerra fredda in corso, che si gioca – a differenza di quella dei tempi del blocco sovietico – nel mondo virtuale. Le cui conseguenze sono ben visibili nel mondo reale.
LA TRATTATIVA
Secondo fonti vicine alla trattativa – riferisce il New York Times – Washington e Pechino vogliono arrivare a un testo definitivo prima della visita del presidente Xi Jinping a Washington, vale a dire prima di giovedì prossimo. Tuttavia l’intesa non dovrebbe mettere al riparo l’America, almeno per il momento, dalle incursioni informatiche ritenute più frequenti – e che fanno parte del nutrito contenzioso tra i due Paesi. Vale a dire, lo spionaggio diretto a “proprietà intellettuale” (e quindi spesso brevetti e piani di aziende americane) e le massicce fughe di dati riguardanti milioni di impiegati governativi statunitensi.
I negoziati hanno subito un’improvvisa accelerazione dopo che, qualche giorno fa, il presidente Barack Obama aveva dichiarato di voler mettere il tema dei recenti attacchi informatici subiti dagli Usa «al centro delle discussioni» del summit. Il nostro obiettivo, ha precisato il presidente, è capire «se noi e i cinesi possiamo unirci in un processo di negoziati» che, in prospettiva, potrà «coinvolgere anche molti altri Paesi».
LE NAZIONI UNITE
Probabilmente, come ha detto un’altra fonte dell’amministrazione Obama al New York Times, non si arriverà entro giovedì a una vero e proprio impegno di Pechino a non attaccare infrastrutture informatiche americane, ma a un più generico appoggio di un codice di condotta, del tipo di quello approvato alle Nazioni Unite il mese scorso per prevenire che il cyberspazio divenga “territorio di guerra”. Il documento, approvato da un gruppo di lavoro dell’Onu, proibisce che qualunque Stato possa danneggiare o rendere inservibili intenzionalmente le infrastrutture di interesse pubblico di un altro Paese. Se questo testo venisse adottato anche dalla Cina, nel corso di un negoziato bilaterale, per Washington sarebbe già un enorme successo.
LO SCARICABARILE
Difficilmente però la Cina chiederà scusa per i casi di spionaggio informatico di cui viene accusata dagli Stati Uniti. Anche perché significherebbe ammettere di averli commessi. Il capo dell’intelligence nazionale, James R. Clapper Jr., ha recentemento detto in una audizione al Congresso che i caso dei 22 milioni di utenti governativi i cui dati sono stati sottratti non può neppure definirsi un “attacco”, perché tutti gli stati raccolgono informazioni di intelligence – ivi compresi gli Usa.
Un altro caso che verrà con ogni probabilità aggirato è quello dei recenti “colpi” subiti da aziende americane, con cinque ufficiali dell’Esercito popolare di liberazione cinese chiamati a rispondere di furto di “proprietà intellettuale”. In soldoni: segreti industriali. Eppure, anche la Sony, che ha visto polverizzarsi il 70 per cento dei suoi sistemi informatici sotto i colpi degli hacker orientali, non può certo definirsi una “infrastruttura critica” per la sicurezza nazionale. In fondo, è un’azienda che – tra i suoi core business – ha i videogiochi e la produzione cinematografica. Sono piccoli distinguo, che al tavolo negoziale possono fare la differenza.
LE RIVENDICAZIONI
Le criticità, e i punti di interesse comuni, sono troppi per rischiare di rovinare un’intesa storica, che porterebbe i rapporti tra i due Paesi su un livello più alto. L’America ha bisogno della Cina, per non destabilizzare un Sud-Est asiatico scosso da rivalità con Giappone e Corea e dalle rivendicazioni di territori. Ultimo caso in ordine di tempo: la costruzione di isole artificiali per rafforzare la presenza militare cinese nel Pacifico, e quindi rafforzare la sovranità cinese sulle Spratley. Le immagini satellitari di piste aeree create su quello che era un atollo corallino, peraltro create a tempo di record, hanno causato un vero tsunami nelle cancellerie occidentali.
Ma oggi anche la Cina – alle prese con una bolla economica e con un rallentamento economico che rischia di minare alle fondamenta il potere del regime – ha oggi più che mai bisogno dell’America. E la visita di Xi potrebbe portare a una svolta. In fondo, si tratterebbe del primo trattato in cui gli attacchi cibernetici vengono equiparati a un atto di guerra.