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 2015  settembre 18 Venerdì calendario

Janet Yellen ha deciso guardando a Pechino. È la sindrome cinese ad averla intimorita: le tempeste finanziarie sono all’orizzonte. E poi, come ricordava Warren Buffett ieri: «Lei, è una che arriva in aeroporto tre ore prima del decollo del suo aereo. Una che mette per iscritto i suoi interventi, anche quando deve parlare in riunioni informali, a porte chiuse. In breve, una che non ama le sorprese. Vi pare che adesso fa una sorpresa a tutti e alza i tassi?»

A leggere i mercati dei futures, ieri mattina, si poteva concludere che gli operatori davano meno del 25 per cento di probabilità ad un aumento dei tassi da parte della Fed. Sempre ieri, due dei più potenti banchieri americani, Lloyd Blankfein (Goldman Sachs) e Jamie Dimon (J.P.Morgan) a domanda rispondevano: «Io i tassi non li toccherei». La stessa cosa diceva il più famoso finanziere americano, Warren Buffett. «Ora – ragionava sempre ieri uno dei più attenti osservatori della Fed – Janet Yellen è una che arriva in aeroporto tre ore prima del decollo del suo aereo. Una che mette per iscritto i suoi interventi, anche quando deve parlare in riunioni informali, a porte chiuse. In breve, una che non ama le sorprese. Vi pare che adesso fa una sorpresa a tutti e alza i tassi?». Infatti, ieri, Janet Yellen e tutto il consiglio della Federal Reserve hanno deciso di lasciare i tassi ufficiali americani a zero, dove stanno dal dicembre 2008. Mai nella storia, hanno subito detto gli osservatori, sono stati così bassi e così a lungo. Ciò che più conta, dalle parole che hanno accompagnato l’annuncio della decisione si può dedurre che questa situazione potrebbe forse prolungarsi anche l’anno prossimo.
Sono scelte strategiche maturate, più che a Washington, a Pechino. Senza il brusco rallentamento dell’economia cinese e l’ombra cupa che proietta sull’economia mondiale, infatti, pochi dubitano che l’aumento dei tassi ieri ci sarebbe stato. In America, le cose, come sottolinea lo stesso comunicato della Fed, non vanno male. Con il 5,1 per cento di disoccupazione, l’economia non è tanto lontana dal pieno impiego. In realtà, la ripresa tarda a far sentire i suoi effetti. Il ritmo degli investimenti non è quello che ci si aspetterebbe a crisi finita e ancor meno lo è il rialzo dei salari – elemento decisivo per sostenere la domanda – che arriva appena al 2 per cento, rispetto ad un anno fa. Soprattutto, l’inflazione continua ad essere lontana dagli obiettivi delle autorità monetarie. Il 2 per cento l’anno di aumento dei prezzi è ben lontano. A luglio sono scesi dello 0,1 per cento, per l’effetto petrolio, ma, anche togliendo l’effetto benzina, l’andamento dei prezzi appare anemico.
Ma il punto è che gli Stati Uniti stanno importando deflazione dall’estero, attraverso la continua discesa del petrolio e la riduzione dei prezzi delle importazioni che è effetto diretto del rafforzamento del dollaro. Ed è guardando fuori dai confini, piuttosto che in patria, che Janet Yellen ha scelto di non toccare l’arma dei tassi di interesse. Lo ha detto chiaramente. La situazione economica americana non è entusiasmante, ma gli economisti della Federal Reserve sono convinti che non possa che migliorare e raggiungere, da qui al 2017, gli obiettivi di occupazione, aumento dei salari e di inflazione che vengono giudicati appropriati. Il vento che soffia fuori, però, non porta nulla di buono.
Le preoccupazioni riguardano, ormai da parecchi mesi, la Cina. Il brusco rallentamento dell’economia cinese, destinato ad aggravarsi l’anno prossimo e, probabilmente, più netto di quanto dicano le statistiche ufficiali ha comportato una altrettanto brusca caduta delle importazioni di materie prime e semilavorati da parte del grande arcipelago di fabbriche cinesi. Ne ha risentito il commercio mondiale, in pratica, quest’anno, in fase di stallo, e, per ora, soprattutto il resto delle economie emergenti. Il Brasile quest’anno vedrà restringersi l’economia di quasi il 3 per cento, la Russia è in recessione, il Medio Oriente sconta la riduzione dei profit- ti del petrolio. Un rialzo dei tassi Usa e il conseguente rafforzamento del dollaro accelererebbe la fuga dei fondi dai paesi emergenti, creando il rischio di una tempesta finanziaria. Contemporaneamente, l’espansione europea e quella giapponese appaiono ancora troppo pallide. A marciare, per ora, è solo l’economia americana. Ma alla Fed sono fin troppo consapevoli che un rafforzamento del dollaro, in un’economia globale così debole, si tradurrebbe in una pesante zavorra sull’export Usa, ponendo un’ipoteca anche sull’attuale ripresa americana.
La mancata decisione ha comunque i suoi contro. All’industria europea, l’aumento dei tassi Usa, spingendo verso l’alto il dollaro e aiutando le esportazioni Ue, avrebbe fatto comodo. Più in generale, il perdurare dell’incertezza su quando, effettivamente, la politica monetaria americana cambierà segno e i tassi lasceranno il livello zero avrà probabilmente, nell’immediato, l’effetto di alimentare la volatilità e l’imprevedibilità dei mercati. Ieri, in effetti, la Yellen ha ripetuto, nella conferenza stampa che, all’interno della Fed, la maggioranza continua a ritenere che un aumento dei tassi ci potrà essere entro l’anno. Ma se e quanto i tassi possano salire a dicembre sono ipotesi circondate da mille cautele.
Nel suo comunicato finale, la Fed si preoccupa di precisare che, anche dopo che occupazione e inflazione siano arrivate vicine agli obiettivi previsti, «le condizioni economiche potrebbero imporre di tenere i tassi, per qualche tempo, al di sotto del livello altrimenti giudicato normale».