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 2015  settembre 18 Venerdì calendario

«Di fronte a una telecamera ci hanno fatto ripetere più volte le stesse frasi. A tutti i costi dovevamo dire che papà ci aveva violentato. Mamma e gli assistenti sociali ci hanno fatto imparare a memoria i concetti che volevano dicessimo agli psicologi». Era il 2000, in piccolo paese al centro della Sardegna. Allora Gabriele e Michele avevano 12 e 9 anni e avevano capito poco o nulla del valore delle loro parole (e dei loro disegni) e tanto meno di quell’inchiesta per violenza sessuale che coinvolgeva il padre e altri sei parenti. Il papà Saverio nel frattempo è stato condannato a nove anni (a luglio la sentenza è diventata definitiva ed è finito in carcere) mentre gli altri imputati sono stati tutti assolti. Ora che sono diventati adulti, i due bambini di allora svelano una storia che rischia di mettere in crisi il sistema giudiziario

«L’interrogatorio sembrava un film, abbiamo persino fatto le prove. Di fronte a una telecamera ci hanno fatto ripetere più volte le stesse frasi. A tutti i costi dovevamo dire che papà ci aveva violentato. Mamma e gli assistenti sociali ci hanno fatto imparare a memoria i concetti che volevano dicessimo agli psicologi incaricati di interrogarci e registrare tutto». Era il 2000 e lo scenario di questa storia è un piccolo paese al centro della Sardegna. Allora Gabriele e Michele avevano 12 e 9 anni e avevano capito poco o nulla del valore delle loro parole (e dei loro disegni) e tanto meno di quell’inchiesta per violenza sessuale che coinvolgeva il padre e altri sei parenti. Il papà Saverio nel frattempo è stato condannato a nove anni (a luglio la sentenza è diventata definitiva ed è finito in carcere) mentre gli altri imputati sono stati tutti assolti. Ora che sono diventati adulti, i due bambini di allora svelano una storia che rischia di mettere in crisi il sistema giudiziario. «Tutti ci chiedono perché noi diciamo solo ora che nostro padre non ci ha mai sfiorato. In realtà, abbiamo provato inutilmente a farlo sapere anche prima – dice Gabriele – C’è persino un memoriale che io ho scritto nel 2009 e consegnato ai responsabili della comunità di Brescia».
La casa famiglia di Brescia
In quella casa famiglia i due fratelli hanno trovato serenità e sono diventati grandi. Di Gabriele e Michele gli educatori della Comunità Pavoniana hanno tutti un bel ricordo, ma il loro racconto li lascia «molto perplessi». Il direttore Gianni Tranfa avrebbe voglia di dire anche qualcosa di più «ma l’avvocato ci ha consigliato di non commentare. Ancora non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione. Ripeto: quello che stiamo sentendo in questi giorni ci dispiace molto». Per ora a far discutere sono le parole dei ragazzi: «Anche mio fratello – aggiunge Gabriele – aveva detto a un educatore di non essere stato violentato ma non è stato ascoltato. Io stesso ho riferito ai responsabili della comunità che ci eravamo inventati tutto. La sua risposta è stata questa: “Ho letto gli atti del processo e questo che dici non mi convince”».
Il memoriale mai arrivato
Di vero c’è che ai magistrati della Procura di Oristano, che si sono occupati delle indagini preliminari, nessuno ha mai riferito che i due fratelli avevano un’altra verità da raccontare. Una versione che molto probabilmente avrebbe cambiato l’iter del processo. Il pm di allora ha cambiato sede ancor prima che il caso arrivasse in Cassazione: ora fa il giudice a Cagliari, ma la sua assistente fa sapere che è già andata via. A Oristano, il procuratore capo Andrea Padalino Morichini segue la vicenda, ma ai tempi di quell’indagine non lavorava in Sardegna: «Se il memoriale di cui parlano i ragazzi fosse arrivato qui sono certo che noi avremmo fatto gli opportuni accertamenti. Prima di tutto avremmo verificato l’attendibilità del racconto. Da quando io sono in servizio qui, questo è certo, non è mai stato consegnato nulla». Intanto il caso finisce alla Corte d’appello di Roma, perché l’avvocato Massimiliano Battagliola ha chiesto la revisione del processo.
Il ricongiungimento
Il memoriale di Gabriele è una sorta di biografia. Quarantadue pagine che parlano di tutto: le gioie dell’infanzia, le amicizie nel paese e i litigi continui tra mamma e papà. Il dolore per il trasferimento dalla Sardegna alla Lombardia, le notti passate in strada, il senso di colpa covato per 15 anni e il ricongiungimento col padre attraverso Facebook. «Eravamo stati obbligati da mamma a dire bugie, perché lei voleva portarci via. Da ragazzini con tanti problemi non sapevamo come fare per dire la verità. Non avevamo il coraggio. Ora che siamo grandi non possiamo accettare che nostro padre resti in cella per nulla». Ieri, nel carcere di Sassari, l’hanno incontrato per la prima volta dopo l’arresto: «Ora è più fiducioso e noi lotteremo per lui».