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 2015  settembre 18 Venerdì calendario

In un Paese “debitocentrico” come l’Italia, il rialzo dei tassi è d’istinto mal visto. Ovunque esso sia. E quindi, la decisione della Federal Reserve di lasciare i Fed Funds invariati, per uno Stato superindebitato è, a pelle, motivo di sollievo. Ma è dei tassi al rialzo che avrebbe bisogno l’Italia, per quello che rappresentano, una crescita sostenuta e un’inflazione in risalita

In un Paese “debitocentrico” come l’Italia, il rialzo dei tassi è d’istinto mal visto. Ovunque esso sia. E quindi, la decisione della Federal Reserve di lasciare i Fed Funds invariati, per uno Stato superindebitato è, a pelle, motivo di sollievo.  Ma è dei tassi al rialzo che avrebbe bisogno l’Italia, per quello che rappresentano, una crescita sostenuta e un’inflazione in risalita.
Se il costo del denaro fosse aumentato sull’altra sponda dell’Atlantico, il decoupling tra Usa ed Europa non sarebbe stato scontato, nonostante nell’Eurozona la Bce sia in pieno allentamento monetario. Quando i rendimenti dei Treasuries riprendono a salire, ci si domanda subito fino a che punto l’effetto di trascinamento potrebbe spingere all’insù anche i Bund tedeschi e conseguentemente i BTp. Per questo, meglio che la Fed
non si muova.
La ripresa in Italia e nell’Eurozona è fragile e i tassi tenuti ai minimi storici, o quasi, sono essenziali per sostenere lo sviluppo economico: il costo del denaro è contenuto non soltanto per lo Stato ma anche per famiglie, imprese e banche. La Bce, con il suo programma di acquisti PSPP, è andata oltre lo “zero bound” dei saggi guida e ha alleggerito ulteriormente il fardello del debito riducendo ai minimi termini lo spread, il premio pagato per compensare il rischio di credito dai debitori meno affidabili. E allora, meglio evitare, in questo momento, nuovi scossoni dalla Fed dopo quelli della Cina, con tutte le implicazioni negative anche per i
mercati emergenti e per la crescita globale.
Ma guardare il mondo attraverso il buco della serratura dello Stato superindebitato è riduttivo. Miope. Come se il taglio del debito pubblico dipendesse principalmente dalla riduzione del costo della spesa degli interessi sul debito. Al dipartimento del Tesoro dove si gestisce il debito pubblico, il risparmio dovuto al minore costo della spesa per interessi è un obiettivo costante ma si evita di ricamare sulle cifre. Perché questo cosiddetto “tesoretto” raramente viene usato per abbattere il disavanzo, come consigliato ieri dalla Bce. E perché il beneficio della minor spesa è comunque temporaneo. I tassi salgono e scendono. Sono altalenanti per un un’infinità di motivi, sono influenzati dai rischi di mercato, di credito, di liquidità e persino in maniera crescente dal rischio politico. La forward guidance della Bce per ora fa stare tranquilli gli Stati con un alto debito pubblico, indicando che i tassi sono bassi e rimarranno bassi a lungo: sul mercato si colgono con soddisfazione tutti quei segnali premonitori (crescenti) di una possibile estensione del PSPP oltre il settembre 2016 con un aumento dell’importo dagli attuali 1.140 miliardi. Eppure proprio ieri, la voce fuori dal coro dell’economista Steven Lewis di ADM investors services sosteneva la tesi che la Bce potrebbe ritrovarsi costretta ad anticipare la fine del PSPP perchè l’inflazione potrebbe tornare a salire in Europa più in fretta del previsto.
Per un Paese come l’Italia, ostaggio del debitocentrismo, la notizia che la Banca centrale europea e la Federal Reserve non trovino motivo alcuno di alzare i tassi, ebbene, è a conti fatti negativa. La montagna del debito pubblico si riduce strutturalmente con la crescita robusta e anche con un po’ di sana inflazione. Per ora mancano entrambe, e i tassi sono inchiodati. Il problema del debito resta: non saranno di certo i tassi allo 0% a tagliarlo in via definitiva. La Bri, in un nuovo rapporto ha calcolato che il debito di Stati, famiglie e imprese (banche escluse) nelle economie avanzate è cresciuto tra il 2007 al 2014 dal 229% al 265% del Pil. Il debito pubblico/Pil dell’Italia è dato al 132% in valore nominale (al quale viene rimborsato) ma al 151,4% in valore di mercato.