Libero, 17 settembre 2015
Eppure l’Ungheria ha più profughi di tutti. Il governo dell’uomo nero, Viktor Orban, messo all’indice da tutte le cancellerie per quel filo spinato con cui sta chiudendo tutte le sue frontiere, tra agosto e settembre ha accolto il doppio dei profughi rispetto alla Svezia, il triplo rispetto alla Germania, dieci volte i Pesi Bassi, quindici volte più della Francia
C’è un Paese in Europa che prima dell’ultima ondata di agosto-settembre nei balcani ha accolto più profughi di ogni altro. Il doppio rispetto alla Svezia, il triplo rispetto alla Germania. Dieci volte i Pesi Bassi. Quindici volte più della Francia. Quel paese è l’Ungheria. Sì, proprio il governo dell’uomo nero- Viktor Orban, messo all’indice da tutte le cancellerie per quel filo spinato con cui sta chiudendo tutte le sue frontiere e impedendo a nuovi profughi di entrare. Fra settembre 2014 e luglio 2015 l’Ungheria ha accolto al suo interno 131.295 profughi, una cifra assoluta inferiore solo a quella della Germania (che ha aperto le porte a 294.580 richiedenti asilo), più che doppia rispetto a quella di Francia (60.075) e Italia (56.923).
Se si tiene conto però degli abitanti di ciascun paese- dato essenziale per capire l’impatto delle ondate migratorie- l’Ungheria ha compiuto nell’ultimo anno sforzi non paragonabili a quelli di altri paesi europei. Ha accolto 1.321 rifugiati ogni 100 mila abitanti. Il secondo paese in classifica è la Svezia: 719 rifugiati ogni 100 mila abitanti. Terzo paese l’Austria: 600 rifugiati, e solo quarta la Germania con 360 rifugiati ogni 100 mila abitanti. Ogni centomila abitanti- per comprendere bene quelle proporzioni- l’Italia ha ricevuto nello stesso periodo 96 richiedenti asilo, la Francia 92, la Gran Bretagna 47, la Spagna 23, il Portogallo 7 e la Slovacchia è ultima con 5 rifugiati.
I numeri non giustificano ovviamente i modi poco urbani di Orban, non rendono giusti i muri eretti, gli idranti che sparano acqua sulla folla, i trattamenti non umanitari che il governo di Budapest ha scelto come reazione estrema all’assenza dell’Europa. Però raccontano la verità fino in fondo, e danno l’impressione di un eccesso ideologico con cui cancellerie e media internazionali hanno creato l’uomo nero ungherese anche per lavarsi coscienze non proprio immacolate. La verità è che l’Ungheria ha fatto uno sforzo straordinario nell’ultimo anno per accogliere i profughi, che non venivano affatto trattati male: tanto è che kossovari come siriani ovunque siano approdati, hanno chiesto espressamente l’Ungheria come paese di accoglienza e solo la Germania le era preferita.
Troppi slogan e troppe leggende metropolitane affollano le cronache sull’ondata di profughi di questa fine estate. E due sono le verità dimenticate: la vera storia ungherese e- è quasi un parallelo- la storia della Turchia, che è la vera origine della fuga in massa di profughi. Come documentano le cronache e rende plasticamente evidente anche un dossier compilato per la commissione europea da un istituto (Mpi) specializzato in politiche migratorie, l’ondata di profughi di queste settimane non fugge dalla Siria, ma dai campi in Turchia dove si trovavano da mesi se non addirittura da anni. Lo ammettono davanti ai microfoni dei grandi network internazionali gli stessi fuggiaschi che parlano un po’ di inglese, ma lo segnala quel dossier riservato alla Ue: fra gennaio e agosto 2015 la popolazione siriana nei campi profughi turchi è scesa di circa 130 mila unità. Qualcuno va avanti e indietro con la terra di origine, non appena cambiano le condizioni di sicurezza in una zona (è accaduto con alcuni profughi della Kobane tornata saldamente in mani curde), ma per la gran parte di loro la regia è del governo turco. L’ondata dunque appare spintanea più che spontanea, e come nel caso ungherese è plastica testimonianza della colpevole assenza dell’Unione europea e dei suoi leader.
Il caso Turchia-Siria non è una novità dell’ultima ora: nei campi profughi (una ventina) di Erdogan sono arrivati durante la guerra almeno 1,7 milioni di siriani, con una crescita esponenziale che nel 2015 ha sfiorato il tetto dei 2 milioni. Per il diritto turco nessuno di loro è tecnicamente un rifugiato: godono di protezione temporanea anche superiore a un anno, ma non possono avere diritto di asilo, riservato dalla legge di Ankara solo a chi proviene dall’Europa. Parte dei siriani è nelle grandi città turche, ha anche trovato casa e lavoro, le grandi cifre però sono nei campi. Clamorosa la situazione nel distretto di Reyhanh, che ha 63 mila abitanti: i profughi siriani sistemati lì sono più di 100 mila. I turchi hanno pazientato durante la crisi, ma da tempo non ne potevano più. Non solo per i numeri, anche per i costi. Secondo il dossier Mpi a giugno 2015 la Turchia aveva speso per loro circa 6 miliardi di dollari, e di questa cifra solo il 3% proveniva da aiuti internazionali (Ue compresa). La situazione era evidentemente insostenibile, e al partito di Erdogan è costata non poco alle ultime recenti elezioni.
Così è cambiato l’atteggiamento verso i siriani, ed è esplosa la crisi di queste settimane: sono le autorità turche molto probabilmente a liberare l’uscita dai campi e a dirottare questa marea umana verso la Grecia e i Balcani, puntando sul cuore di quell’Europa che dormito tragicamente in questi anni.
Purtroppo questa è esattamente la storia del bimbo-simbolo di questa crisi: Aylan Kurdi, i cui particolari sono giorno dopo giorno emersi sui media internazionali. Il cognome di Aylan (e dell’unico sopravvisuto, il padre Abdullah) non era Kurdi, ma «Shenu». Quel nuovo cognome era stato affibbiato dall’anagrafe di Erdogan, perchè la famiglia da tre anni era in Turchia. Lì lavoravano, e faticavano a mantenersi, tanto da avere provato qualche mese a rientrare nella natia Kobane. Tornati in Turchia, hanno passato gli ultimi mesi aiutati solo dalla zia, che pagava l’affitto di casa e alla fine ha inviato l’assegno per spesare la fuga verso la Grecia e poi il Canada in cui ha perso la vita quasi tutta la famiglia.