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 2015  settembre 17 Giovedì calendario

«Quella volta che Einaudi proibì a Calvino il Premio Viareggio». A trent’anni dalla scomparsa, il direttore del Salone del libro Ernesto Ferrero ricorda gli anni torinesi al fianco dello scrittore. «Era molto autoironico. Anche nelle interviste – in questo era molto simile a Primo Levi – si presentava sempre con un profilo bassissimo. In riunione si divertiva a mettere in caricatura le sue difficoltà d’eloquio accentuando la propria balbuzie»

Roccamare, 6 settembre 1985. Italo Calvino si accascia a terra per un ictus. Lo trasportano a Siena dove, ha detto una volta il suo amico Pietro Citati, “lo operarono solo perché era Italo Calvino. Avrebbero dovuto lasciarlo morire: non c’era speranza che sopravvivesse”. Se ne andrà pochi giorni più tardi,  il 19 settembre. Trent’anni dopo, la memoria di chi l’ha conosciuto è ancora viva, insieme alla riconoscenza. E siccome i classici sono tali perché non smettono mai dire quello che hanno da dire e sono sempre attuali, con Ernesto Ferrero, di nuovo direttore editoriale del Salone del libro, il papà di Marcovaldo s’affaccia prima che l’intervista abbia inizio.
Si parla della burrascosa successione al Salone: “Calvino lo diceva quarant’anni fa: le mutazioni, le trasformazioni, avvengono fuori dalla politica perché la politica si limita a gestire le emergenze e quindi arranca”.
Cartoline da un’Italia in bianco e nero: albeggia il 1963, Ferrero entra per la prima volta in via Biancamano, mitico tempio torinese del sapere. Al colloquio per il posto all’ufficio stampa presenziano Giulio Einaudi e Roberto Cerati. “Mi hanno fatto scrivere un risvolto di prova: allora era un compito degli uffici stampa. Un retaggio storico di quando all’ufficio stampa c’era Calvino medesimo: nessuno era bravo come lui nei risvolti. Mi toccò un romanzo complicato da raccontare perché non succedeva assolutamente niente: nevrosi minimalista. L’ho scritto tra mille ambasce, sapendo che era la prova della mia vita. Alla fine è venuto fuori un po’ legnoso”. E – l’importanza di chiamarsi Ernesto – “a Calvino non è piaciuto. A Einaudi sì, e sono entrato”.
Che maestro era?
Non voleva esserlo per evitare quel tanto di emotivamente ambiguo che sempre passa nel rapporto con l’allievo. Era un grandissimo lavoratore: ha faticato, da quando è entrato come ragazzo di bottega fino alle Lezione americane, come i contadini che zappavano i poderi di suo padre a San Remo. Sempre disciplinato e partecipe di questo gioco collettivo, in cui non c’erano ruoli definiti. Del resto diceva: “Lavorando in una casa editrice, ho dedicato più tempo ai libri degli altri che ai miei. Non lo rimpiango: tutto ciò che serve all’insieme di una convivenza civile è energia ben spesa”. Non ha mai fatto valere il suo peso, la sua autorevolezza, il suo carisma. Nemmeno quando si trattò del suo grande amico Georges Perec: pubblicare La vita, istruzioni per l’uso costava troppo all’Einaudi in crisi. Ma lui non s’impuntò e poi lo fece Rizzoli.
Quando uno se ne va, chi resta ama dire che lo scomparso lo teneva in grande considerazione…
Non è il nostro caso. Calvino non mi riteneva né particolarmente bravo né particolarmente intelligente. Mi bacchettava parecchio, cosa di cui gli sono assai grato. Mi diceva bruscamente, con poche parole dure, quello che non andava. T’insegnava il mestiere senza eufemismi e nemmeno pietà.
Una volta Calvino ha detto a Giulio Bollati: “Sono un grande minore”.
Fa parte del suo understatement: era molto autoironico. Anche nelle interviste – in questo era molto simile a Primo Levi – si presentava sempre con un profilo bassissimo. In riunione si divertiva a mettere in caricatura le sue difficoltà d’eloquio accentuando la propria balbuzie. La parola parlata non gli piaceva, perché – diceva – nella concitazione del dire riesce fatalmente approssimativa. Quando Arpino gli dava del ghiacciolo rispondeva: “Magari! Sarebbe il più bel complimento che mi sia stato rivolto! Purtroppo ne sono molto lontano”.
Alla fine degli Anni Sessanta mandò il celebre telegramma, respingendo il premio Viareggio: “Ritenendo definitivamente chiusa epoca premi letterari rinuncio al premio perché non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato”. Perché gli hanno fatto la cattiveria di intitolargli un premio?
Ricordo bene questa storia. È stato Einaudi, Calvino non era affatto contrario a riceverlo. Einaudi glielo fece rifiutare perché in quel periodo – pieno ’68 – irridere le istituzioni letterarie era molto facile. L’aria era “demoliamo l’ancien régime“. Il premio intitolato a Italo è riservato agli esordienti e ha una funzione di filtro piuttosto utile. Tutti gli anni vengono fuori testi di buon livello e c’è una certa competizione tra gli editori. Calvino è sempre stato molto attento a quelli che in casa editrice venivano chiamati ironicamente “manoscrittai”. A loro ha mandato migliaia di lettere, con grande generosità: non solo li leggeva, non solo rispondeva, ma attraverso le osservazioni critiche restituiva una sua idea della letteratura, il come fare. Più erano lontani, più lui si apriva e raccontava di sé. Con i conoscenti e le persone vicine era molto cauto. Anche in questo era simile a Levi: temeva l’aggressività della corporazione dei letterati. A ogni libro che usciva si aspettava di essere impallinato, anche se è sempre stato trattato con rispetto. Io ero andato via dall ed era uscito Una pietra sopra. L’avevo recensito: mi mandò un biglietto da cui traspariva il sollievo di uno che anche quella volta l’aveva scampata…
Con i grandi, come Pavese e Fenoglio, che rapporti aveva?
Con Pavese un rapporto filiale, soffrì molto la sua morte. A Fenoglio voleva bene, gli era simpatico questo spilungone di Alba un po’ ruvido e brusco come lui. C’è una lettera straziante in cui Fenoglio chiede se gli possono pagare un anticipo di quarantamila lire per saldare le rate della macchina da scrivere.
Umanamente com’era?
Detestava parlare di sé. Per decenni, gli è toccato combattere in prima fila: la guerra partigiana, dove è scampato per un pelo alla fucilazione, poi la militanza Pci e il lavoro nelle cucine dell’Einaudi, con dedizione, umiltà, spirito di servizio. Sognava una letteratura priva dell’ingombrante presenza dell’autore: “Come scriverei bene se non ci fossi!”. Per tutta la vita ha provato a sparire, defilandosi, scegliendo la parte del testimone secondario. Era parsimonioso, attento, vestiva in maniera dimessa. Delle apparenze, come del cibo, non gli importava nulla.