La Stampa, 17 settembre 2015
Tra religione e business, il rugby torna a casa. Viaggio nella scuola di Rugby dove nacque la palla ovale. Si giocava in 300 e si scartavano le mucche: fino alle regole sacre
Il sole compare qua e là, i quattro pali si alzano come preghiere bianche contro le nuvole grigie. Il prato è di un verde infinitamente luminoso ed educato. «Williams Webb Ellis è esistito e ha studiato alla Rugby School», sorride Peter Green, l’Albus Silente della Hogwards ovale più famosa del mondo. «Se poi sia stato proprio lui, nel 1823, a raccogliere per primo la palla con le mani e correre verso la meta, nessuno lo sa veramente.
«Contro le regole»
Come nei racconti del Vecchio Testamento una parte di verità deve esserci. Però una cosa è certa: tutto è iniziato davanti a voi». In mezzo al Close, il recinto d’erba dove il giovane e insofferente William proprio con quel fine disrespect of the rules, quella sana mancanza di rispetto per le regole si sarebbe ribellato alla noia, inventando con un gesto il rugby. Anzi, il rugby football (pensate se il tennis si chiamasse Wimbledon) come si ostinano a chiamarlo nel luogo dove De Coubertin si convinse a resuscitare le Olimpiadi. Curioso che, nel paese in cui più di tutti le regole sono sacre, uno dei – presunti – eroi dello sport moderno venga ricordato con tanto di targa proprio per averle strappate. Forse perché allora le regole non esistevano. Si giocava anche in 300, non necessariamente 150 per squadra, a volte 70 adulti contro 200 ragazzini. Le partite duravano cinque giorni – «ma se dopo tre nessuno ha tentato il calcio sarà dichiarato il pareggio», recita una delle 37 norme del sacro manuale, scritto due decenni dopo e conservato nel museo. A volte bisognava dribblare le mucche e in mezzo al campo c’erano tre alberi: «chi li colpisce può riprendere il gioco calciando dalla parte preferisce, se gli avversari glielo consentono».
Era il gioco praticato fin dalla metà del XVIII secolo, in cravatta e gilè, dai borghesi che a inizio Ottocento sarebbero diventati gli allievi di Thomas Arnold, il più famoso rettore della scuola, l’intellettuale che voleva forgiare un’Inghilterra governata da atleti cristiani, duri ma santi, e decise che quello sport apparentemente brutale e scomposto sarebbe stato il suo strumento. Fede, lealtà, spirito di squadra. E rispetto delle regole.
Domani a Twickenham iniziano i Mondiali e i superatleti ipermuscolati di oggi devono dire grazie a Webb Ellis, che finì i suoi giorni da reverendo ed è sepolto a Mentone, e al rettore Arnold se oggi il rugby continua a predicare (più o meno) gli stessi valori ma è uno sport professionistico che paga sontuosi stupendi e produce indotti da favola. Secondo gli economisti l’impatto del Mondiale britannico sulle casse di Sua Maestà sarà di 2.1 miliardi di sterline. Sono attesi quasi 500 mila spettatori dall’estero, 2 miliardi davanti alla tv. Tutti, qui, sperano di vedere l’Inghilterra battere la Nuova Zelanda in finale.
«A Rugby sicuramente la palla ovale è fondamentale per l’economia», spiegano i politici locali, che però non sanno racchiudere in una cifra l’indotto cittadino provocato dall’ovale. «Preferiamo pensare che per questi mondiali abbiamo investito 1,1 milioni di sterline, e che anche grazie ai 150 mila visitatori previsti i nostri cittadini d’ora in poi potranno avere internet gratis».
Retta da 43 mila euro
I soldi peraltro non sono un problema per chi iscrive i figli ad una delle independent school (età compresa fra gli 11 e i 18 anni) più famose del Paese, fondata nel 1567 con i soldi del droghiere di Elisabetta I Lawrence Sheriff. La retta annuale oggi è di circa 32 mila sterline (43mila euro) ma aggiungendo gli extra – i viaggi negli States, la costosissima divisa, quelle gonne lunghe delle ragazze che fanno tanto epoca vittoriana e non si possono fotografare – si arriva facilmente a 50 mila. Il prezzo di classi composte al massimo da 12 studenti, con insegnanti molto qualificati e una tradizione che blinda il futuro. Fra gli ex-allievi si trovano primi ministri,vescovi, premi Nobel; e poi Lewis Carroll, il batterista degli Horror e Salman Rushdie. La città è lastricata di targhe con i nomi delle leggende dello sport e sul muro di una chiesa due righe si intrecciano su un campo verde per formare la croce. «Gesù ha messo la sua vita sulla linea per te», c’è scritto. Sembra il motto perfetto per un gesto di noia molto british che i ricchi nipotini di Web Ellis hanno saputo trasformare in religione.