il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2015
Genesi del primo Pasolini. L’Accattone tra tagli, censure e mille rifiuti: «Perché faceva così paura? Perché per la prima volta veniva portato sul grande schermo un mondo talmente ai margini della società da non avere neanche Marx al proprio fianco. Un mondo senza speranza, senza futuro»
"O er monno m’ammazza a me, o io ammazzo a lui”. Ma come fai ad ammazzarlo, il mondo, quando ti chiami Vittorio Cataldi, ma gli altri ti chiamano Accattone, non hai mai lavorato in vita tua (“Er sangue mio nun se lo beve nessuno! Er lavoro! Le bestie lavorano”) e per campare “con la mano inanellata e col polso luccicante di bracciali” fai il pappone, anzi, “er mestiere de pappone ce l’hai nel sengue”? Casomai è il mondo che t’ammazza, perché non c’è catarsi, non c’è espiazione, non c’è redenzione dal peccato originale: quello di essere, alla fine degli Anni Cinquanta, un morto di fame, un borgataro, un ragazzo di vita violenta senza alcun orientamento morale. Perché la morale, si sa, è roba da borghesi. Non da sottoproletari. E allora la morte è l’unica salvezza. Non il suicidio, ma la Provvidenza, quella che fa scappare Accattone in sella a una moto rubata per sfuggire alle guardie e che lo fa schiantare contro un muro a ridosso del Tevere. E chissà che il primo finale immaginato, quello di un lancio nel fiume, non sia stato evitato – oltre che per ragioni stagionali – anche proprio per questo: non è Accattone che si mangia la vita, è la vita che si mangia Accattone. E lo salva da se stesso.
Dopo una magistrale opera di recupero e ricostruzione, la Cineteca di Bologna e Cinemazero di Pordenone inaugurano – domani la presentazione a “Pordenonelegge” – una nuova collana, “Pasolini ritrovato”, dedicata al poeta nel quarantennale della sua ignobile fine. E partono proprio da “Il laboratorio di Accattone”, l’opera cinematografica prima di Pier Paolo Pasolini, quella che determina un passaggio fondamentale nella sua vita e segna uno spartiacque nel cinema italiano da cui non si è più potuti tornare indietro. La pellicola ebbe un’epifania contrastata, che il mondo intellettuale dell’epoca comprese, non quello politico. Tanto che, per la prima volta in Italia, la censura venne portata dai 16 ai 18 anni. L’opera era fuori da qualsiasi schema cinematografico vigente: le sue immagini scarne, le inquadrature sovraesposte, le carrellate interminabili, i volti veri dei sottoproletari raccolti nelle borgate lo allontanavano da ogni forma di realismo o di sentimentalismo. Le scelte pasoliniane, che si orientavano verso un recupero del cinema di Dreyer e di Chaplin, sembravano anacronistiche: in pochi capirono che invece si trattava di un vero balzo in avanti. Il poeta divenuto regista giustificava la povertà delle immagini dando la colpa alla propria inesperienza dietro la macchina da presa, eppure un giovane Bernardo Bertolucci, aiuto regista nel film, parlava di un Pasolini reinventore del cinema.
Nel libro curato da Luciano De Giusti e Roberto Chiesi, si ricostruisce questa genesi tormentata, fin dal rifiuto da parte della Federiz di Federico Fellini e Angelino Rizzoli di produrre il film. “Ci fu un momento un po’ difficile con Pasolini – ebbe modo di spiegare poi Fellini –, ma ero comunque riuscito a convincere sia Fracassi che Rizzoli a fare dei provini e Pier Paolo aveva girato già due o tre giorni al Tiburtino III, nelle sue borgate, aveva scelto Franco Citti. (…) Ci fu un raffreddamento tale da parte di Rizzoli e Fracassi per cui fui costretto a dire di no a Pier Paolo. (…) Lui, intelligente com’era, capì che c’erano resistenze da parte mia – cosa non vera – e mi ricordo che sorridendo con un po’ di mestizia mi disse: ‘Certo non posso fare il cinema come lo fai tu’”. Fortuna volle che Pasolini incontrasse sulla sua strada il coraggioso Alfredo Bini, che poi lo accompagnò fino a Edipo Re. Rifiutato poi dalla XXII Mostra del Cinema di Venezia (con forti pressioni dall’alto sulla commissione chiamata a selezionare le opere), Accattone venne proiettato ugualmente nella Sezione informativa, il 31 agosto 1961. Cinque giorni prima, l’Arco Film lo aveva presentato alla commissione di censura: fu l’allora sottosegretario allo Spettacolo Renzo Helfer a dichiarare: “Non è pensabile che la pellicola possa venire proiettata a un pubblico che non abbia raggiunta la piena maturità”. E Pasolini fu costretto a modificare alcune scene e molte frasi delle sceneggiatura: la parola “vergine” non era tollerata dal perbenismo borghese, nè si poteva svelare quanto guadagnavano le prostitute dell’epoca.
Perché Accattone faceva così paura? Perché per la prima volta veniva portato sul grande schermo un mondo talmente ai margini della società da non avere neanche Marx al proprio fianco. Un mondo senza speranza, senza futuro.
L’impossibilità di modificare la propria condizione, l’ineluttabilità della tragedia insita nella sua figura fin dalle prime scene (l’Angelo alle sue spalle, mentre si getta nel Tevere per sfida) rendono Accattone una vittima più che uno sfruttatore, un condannato di una società che lui neanche vede, tanto ne è tagliato fuori. Dalla borgata è impossibile uscire, perché la borgata, come Buchenwald, diventa un lager, simbolo di un’Italia dimenticata e da dimenticare. “La miseria – sosteneva il poeta in un’intervista apparsa su Bianco e Nero nel 1964 – è sempre, per sua intima caratteristica, epica, e gli elementi che giocano nella psicologia di un miserabile, di un povero, di un sottoproletario, sono sempre in un certo qual modo puri perché privi di coscienza e quindi essenziali”. Non può esistere morale nel mondo di Accattone, perché la morale è una condizione borghese e perché è la stessa società borghese a farlo nascere amorale. Accattone vive una tragedia, individuale e al tempo stesso sociale, ma il suo sacrificio non servirà a fare una rivoluzione. Anzi, non servirà a nulla.