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 2015  settembre 15 Martedì calendario

Non solo Marilyn. Su Playboy, il New Yorker con le tette, ci è finita la letteratura con Calvino, Nabokov e Bradburry e la politica con la storica intervista a Castro, quella a Martin Luther King e ora, per la felicità di tutti i camionisti, ci è finita anche la Boldrini che «lascia presagire una dirompente anima dominatrice»

Corsi e ricorsi. Quando uscì il primo numero di Playboy, nel dicembre 1953, in copertina c’era una splendida Marilyn Monroe. Fin da subito, il giovane editore 27enne Hugh Hefner di Chicago svelò le sue intenzioni: offrire il meglio ai lettori maschi. Entertainment for men, si leggeva infatti sotto la testata. Erano anni di perbenismo e cacce alle streghe. Di ipocrisia e censure. La copertina fu un necessario compromesso. La Monroe era presentata vestita, sia pure succintamente, ma vestita. Nelle pagine interne della rivista patinata, però, ecco la grande sorpresa, lo scoop, il colpo da maestro: la donna più desiderata d’America era ritratta languidamente nuda. Sdraiata su di un fianco, sopra un lenzuolo rosso: un nudo tuttavia non volgare, statuario. Bellissimo come la Venere di Milo. Divenne la foto più famosa della diva di Hollywood. Quella più appesa negli abitacoli dei camionisti. Solleticava le loro fantasie erotiche, i loro desideri proibiti. Del resto, continua a farlo, 62 anni dopo.
In Italia, secondo il sito Marieclaire.it che poche settimane fa ha condotto un sondaggio tra gli autotrasportatori, pare che in testa ai sogni libidinosi dei camionisti non ci siano la prosperosa Sabrina Ferilli o Alessia Marcuzzi, bensì Laura Boldrini. Poteva lasciarsi sfuggire un’occasione simile l’edizione italiana di Playboy, tornata in edicola nel luglio scorso dopo più di un anno d’assenza? Assolutamente no. Nel numero di settembre, quello ancora in edicola con l’accattivante titolo “Scrivere è sexy”, ecco che la presidente della Camera è presa di mira dalla rubrica ‘Quando il potere ha i tacchi a spillo’. La Boldrini, si legge, “lascia presagire una dirompente anima dominatrice”, in bilico tra santità e peccato, con tanto di “carriera sul velluto” (rosso, come nella foto di Marilyn?).
Una gattamorta: con quella sua aria “apparentemente docile” lei gli uomini se li mangia in un boccone. Anzi, con “il tono da maestrina, quella conturbante aria un po’ snob e distaccata e due occhi da cerbiatta che lasciano intendere una certa predisposizione a condurre il gioco…”. Analoga sorte era toccata nel primo numero di questo Playboy (70 mila copie di tiratura) edito dal milanese Kytori Media Group, a Maria Elena Boschi, definita “la Giaguara”, dal fascino “assolutamente bipartisan”. In futuro toccherà, mi spiega il direttore Vincenzo Petraglia, quarantenne di origini lucane, “ad altre donne potenti e affascinanti”, donne tacco dodici che “comandano e stuzzicano”. Dagospia stende un velo pietoso: “Volevamo lo scandalo, ci hai dato solo storytelling grillino”.
Perché la Boldrini made in Playboy sconfina nel moralismo antipolitico. Eppure, in altre pagine troviamo Gherardo Colombo che discetta su Tangentopoli: “Non solo lui. Abbiamo avviato un rapporto di collaborazione con la scuola di scrittura Bottega Finzione di Carlo Lucarelli, che è stato intervistato nel numero di luglio”, continua Petraglia, “avremo personaggi italiani di calibro in futuro, daremo spazio ai talenti emergenti della nostra letteratura”. Nel primo numero italiano di Playboy (novembre 1972) si vantava Italo Calvino. In copertina, una donna di colore.
L’intento era quello di smantellare l’immagine forchettona di una società italiana ancora indietro, rispetto al resto del mondo. Approfondimento culturale e sesso progressista. Playboy, quello made in Usa, pubblicò fra tette e culi epocali frammenti di sublime letteratura americana. Cominciò Ray Bradbury che spalmò su tre numeri (gennaio-marzo 1954) l’immortale Fahrenheit 451. Ci furono Saul Bellow, Norman Mailer, Gabriel Garcia Marquez, Jack Kerouac, Chuck Palahniuk, John Cheever, Michael Chrichton, John Updike, Doris Lessing, Kurt jr. Vonnegut, tanto per ricordarne alcuni. Fondamentale ruolo ebbero il columnist Marshall McLuhan e il giornalista Alex Haley che fu responsabile di straordinarie interviste senza reticenze.
Playboy fu consacrata quale sofisticata rivista anticonformista, la più letta d’America e del mondo: “Un New Yorker con le tette”, scrissero. Lingerie, malizia e riflessioni. Infranse un cerchio di (false) virtù e di pregiudizi politici che avevano contaminato la società stelle e strisce marcata dalle fobie maccartiste, dalla Guerra Fredda, dal movimento d’emancipazione dei Neri, dalle pulsioni liberali che sfociarono nella rivolta dei campus universitari. Fragole, sangue, e piacere: Herbert Marcuse ne fu il profeta. Il mitico e sulfureo jazzista Miles Davis fu il primo a essere intervistato, in quel di Parigi, nel gennaio 1962.
Storica, l’intervista a Fidel Castro, nemico numero uno degli States, del gennaio 1967. Preceduta, due anni prima da quella di Martin Luther King. La spregiudicata Bette Davis, icona del movimento gay, nel 1982 elogiò la “predisposizione artistica” degli omosessuali e la loro altissima serietà professionale. Vladimir Nabokov raccontò i segreti di Lolita nel 1964. Timothy Leary che aveva fondato la Lega per la Spirituale Scoperta (Lsd) vantò e difese le oniriche trasgressioni della sostanza nel 1966, l’anno in cui venne messa fuorilegge. Argomenti tabù – come lo era il sesso nella puritana società Usa – che contribuirono a mutare il costume. Tant’è che oggi persino l’Enciclopedia Treccani lo riconosce nella voce dedicata a Playboy.