la Repubblica, 15 settembre 2015
Per Matteo Renzi l’articolo 2 non si deve toccare: «Io mi aspetto che la riforma passi. Come si possa cambiare idea per la terza volta è un problema che riguarda il presidente del Senato». Il dissenso resta dunque “limitato” a un solo punto, ovvero dove piazzare la norma che stabilisce l’indicazione da parte dei cittadini dei consiglieri regionali che andranno a palazzo Madama. La minoranza pretende che il comma sia inserito all’articolo 2. La Finocchiaro ha proposto gli articoli 10 o 35. Bassanini e alcuni costituzionalisti suggeriscono il numero 35, sempre «senza toccare l’articolo 2». Apparentemente una questione da azzeccagarbugli, eppure è proprio su questa che potrebbe saltare la legislatura
Matteo Renzi pensa che il famoso articolo 2 della riforma costituzionale non si deve toccare.
Perché è già stato approvato da Camera e Senato in copia conforme. Ma pensa anche che toccherà a Pietro Grasso gestire questa patata bollente. «Io - spiega il premier - mi aspetto che la riforma passi. Come si possa cambiare idea per la terza volta è un problema che riguarda il presidente del Senato». Il leader del Pd fa una battuta anche sull’idea che larga parte del paese sia in mano alle mafie: «Questa rappresentazione è macchiettistica. E’ uno slogan», dice. Comunque Renzi è sicuro che la riforma passerà. Anche di fronte alle turbolenze degli alleati del Ncd che minacciano di non votare le riforme se non si pone mano all’Italicum e si torni al premio alIa coalizione. «Domandi a loro piuttosto - chiede Renzi a Lilli Gruber a Otto e Mezzo - perché hanno cambiato idea dopo che hanno votato quella legge elettorale». Gli alfaniani però non mollano e ricordano al premier che senza i loro voti a Palazzo Madama non ci sono i numeri per il via libera al nuovo Senato. Minaccia rafforzata dal no alle riforme che arriva da Forza Italia tramite il capogruppo al Senato Paolo Romani. Però rimane sempre la carta dell’accordo interno al Pd. E ieri dalla nuova riunione del “tavolo” interna sulla riforma è arrivato qualche segnale positivo. Perché Maria Elena Boschi ha detto che c’è l’accordo per chiudere in aula il 15 di ottobre. Ma soprattutto perché il sottosegretario Luciano Pizzetti ha detto che si sono fatti passi avanti. In particolare proprio sulla questione dell’elezione diretta dei nuovi senatori. «C’è convergenza sul fatto che i cittadini devono indicare i rappresentanti in Senato. Sul come c’è ancora da lavorare», ha spiegato Pizzetti. Nel frattempo Massimo D’Alema, che vede il Pd “deperito” nega di pensare alla scissione: «Comprendo che il presidente del Consiglio desidera che ciò venga scritto ancorché non sia vero». Renzi replica: «Il Pd nei sondaggi è al doppio rispetto ai tempi di D’Alema».
Silvio Buzzanca
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Il collo d’imbuto è arrivato e Renzi non cambia idea. «Sono disponibile a trattare su tutto - ha ribadito ieri ai collaboratori - tranne tornare indietro e ricominciare daccapo». È stato questo anche il senso del ragionamento che il premier ha illustrato a colazione al capo dello Stato, nel primo incontro dopo le vacanze. Un giro d’orizzonte sui temi internazionali e sulla legge di Stabilità che, inevitabilmente, è arrivato al nodo cruciale della riforma costituzionale. E Renzi si è mostrato inflessibile solo su un punto: in caso di sconfitta parlamentare sull’articolo 2, il premier si dimetterà. E il segretario del Pd a quel punto riterrà esaurita la legislatura. Nel rispetto dei ruoli, ma il Pd non appoggerà un altro governo in questa legislatura.
È questa la principale debolezza ma anche la forza di Renzi. Consapevole dei rischi che corre a palazzo Madama, sa anche che l’unica speranza di sfangarla è tenere fermo il principio che, se qualcuno pensa di far saltare il governo, deve sapere che dopo ci saranno soltanto le elezioni. Con il proporzionale certo, ma con soglie di sbarramento alte e la sinistra del partito che sarà accusata in campagna elettorale di aver giocato allo sfascio «per un puntiglio incomprensibile ai nostri elettori». Ieri infatti al tavolo istituzionale messo in piedi tra i gruppi del Pd di Camera e Senato, a cui partecipano anche esponenti delle minoranze, è venuto fuori quello che nei giorni scorsi era ormai apparso evidente: le posizioni di merito sono vicinissime. A stilare l’elenco delle modifiche su cui l’intesa è possibile è il sottosegretario Luciano Pizzetti: «Sull’articolo 1 e sulle ulteriori funzioni da attribuire al Senato c’è condivisione; sul fatto che il Senato possa eleggere due giudici della Corte costituzionale c’è accordo, come sul fatto che i cittadini concorrano alla definizione dei senatori». Il dissenso resta dunque “limitato” a un solo punto, ovvero dove piazzare la norma che stabilisce l’indicazione da parte dei cittadini dei consiglieri regionali che andranno a palazzo Madama. La minoranza pretende che il comma sia inserito all’articolo 2. La relatrice Finocchiaro ha proposto due “scaffali” alternativi, gli articoli 10 o 35. Franco Bassanini e alcuni costituzionalisti del centro studi Astrid suggeriscono il numero 35, sempre «senza toccare l’articolo 2». Apparentemente una questione da azzeccagarbugli, eppure è proprio su questa che potrebbe saltare la legislatura. Che il momento sia delicatissimo lo confermano le parole degli interessati, consapevoli di maneggiare una materia altamente infiammabile. Così persino Doris Lo Moro, una delle più toste tra gli esponenti della minoranza, dopo la riunione di ieri si dice «fiduciosa» su un’intesa possibile. E il capogruppo Luigi Zanda parla di un «clima buono». I “governativi” hanno anche incassato un’altra disponibilità importante, quella sul calendario. La minoranza infatti concorda sul fatto che la riforma debba essere approvata entro metà ottobre, lasciando così spazio alla sessione di bilancio.
Ma nessuno si nasconde che in realtà, sul punto contestato, l’articolo 2, non si è fatto un solo passo avanti. Ognuno è rimasto sulle sue posizioni, nessuno cede. Tanto più che l’ex segretario dem Bersani rpete ai suoi fedelissimi: «O cambia la norma sulla elettività, o l’accordo non si fa». Intanto a palazzo Chigi si è acceso un faro sull’Ncd, la cui situazione interna viene valutata in rapido deterioramento. Con Maurizio Lupi che invoca un ritorno nel centrodestra alle amministrative di Milano, mentre il ministro Lorenzin sposa l’alleanza con il Pd. I conti del sottosegretario Luca Lotti vanno continuamente aggiornati. Nonostante la fronda interna del nuovo centrodestra, al momento i voti contrari degli alfaniani si fermerebbero a 3-4. In compenso, è la convinzione degli uomini di Renzi, «alla fine la minoranza Pd si dividerà in tre».
In ogni caso, se anche la maggioranza dovesse essere inferiore a quota 161, per il premier «non ci saranno problemi». Il governo andrà avanti. Solo nel caso la riforma venisse stravolta da un emendamento sull’elettività dei senatori Renzi si dimetterebbe: «Se pensano che sia disponibile a un bis dopo che mi hanno mandato sotto si sbagliano di grosso. Non resto a bagnomaria come chi mi ha preceduto». Se infatti Renzi accettasse di essere rimandato alle Camere per chiedere di nuovo la fiducia, si trasformerebbe in un ostaggio nelle mani della minoranza. Dovendo contrattare su ogni punto con avversari che avrebbero già dimostrato di poterlo sconfiggere. Una condizione inaccettabile per un uomo che fin qui ha affrontato ogni curva sempre a gas aperto.
Francesco Bei