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 2015  settembre 14 Lunedì calendario

«Il tennis ti chiede e ti brucia, se non sei pronto ad accettare i suoi ricatti agonistici, che sono il sale di questo sport, allora vuol dire che è arrivato il momento di porsi delle domande». Dopo l’annuncio del suo meritatissimo addio ai campi Flavia Pennetta racconta il perché della sua decisione e cosa sogna per il futuro: «Una vita diversa, intanto un po’ di tempo per pensare a cosa farò, come si dice in questi casi, da grande. Sicuramente non vedo una vita futura lontana dal tennis al 100%, a casa mia solo il gatto non giocava a tennis»

C’è in effetti un luogo che ben raffigura l’innalzamento del tennis italiano: il Top of the rock, la terrazza del Rockefeller Center. Le foto di rito si scattano qui. A Flavia Pennetta poco importa che la stampa americana le abbia ritagliato uno spazio quasi folkloristico: «Sono le inveterate abitudini del luogo, quando gli italiani emergono diventano un po’ macchietta. posso dirlo? Facciano pure». La serata della gioia è trascorsa come una serata qualunque, talmente qualunque che lei e Fabio si sentivano a casa guardando le luci di Times Square.
C’è stato un filo rosso che ha legato questi suoi ultimi giorni?
«Un gran mal di stomaco».
Tensione?
«Ma sì, un po’ tutto. Per fortuna ci sono abituata. Io non esterno, trattengo».
Questa storia del ritiro?
«Un lungo parto, sofferto, ma è la strada giusta».
Si è accorta di quanta gente lascia lo sport sempre prima, diciamo così, di un ragionevole limite?
«Lo sport professionistico, con queste richieste funzionali, è logorante. Più per la testa che per il fisico».
Quando si è resa conto che forse era arrivato il momento di staccare?
«Ho avuto segnali diversi, distribuiti nel tempo e in modo troppo armonico per non essere sospetti e meritevoli di attenzione. Però la vera miccia che ha accesso il mio interesse e il mio cuore la faccio coincidere con l’ultimo Roland Garros, quando avevo voglia di abbandonare il torneo. Strana voglia, no?»
Esattamente di cosa si trattava?
«La sensazione che non fossi più così disposta a competere in ogni momento, ogni settimana. Il tennis ti chiede e ti brucia, se non sei pronto ad accettare i suoi ricatti agonistici, che sono il sale di questo sport, allora vuol dire che è arrivato il momento di porsi delle domande. Sono 24 settimane a stagione di sforzi continui, prolungati, non è detto che uno ce la faccia, magari in questo l’età si sente, nel senso positivo, ti aiuta a capire meglio chi sei e come stai cambiando».
E così non lo sapeva nessuno?
«Non lo sapevano i miei, non lo sapeva Roberta, non lo sapevate voi, ma io, Fabio e il mio coach Navarro sì».
A Roberta l’ha detto in campo l’altro giorno…
«E lei mi ha risposto: che? Non se l’aspettava, nemmeno mio padre in effetti se l’aspettava. Poi però Roberta ha capito e ha aggiunto: ma sì, fai bene…!».
Quando ha capito che non sarebbe più tornata indietro?
«A Toronto qualche giorno fa».
Ma se non avesse vinto qui a New York?
«La decisione di chiudere a fine stagione sarebbe rimasta, forse avrei cambiato il momento dell’annuncio, forse quest’inverno. Ora non posso chiedere di più: uno Slam, un titolo Premier (Indian Wells, ndr), 4 Fed Cup, due volte Top Ten, n.1 in doppio».
Ma lei sta bene? Ossia non ha acciacchi che possono averla influenzata?
«Ora sì, ma non è stato sempre così e anche questo è un fattore che ha indirizzato le mie scelte».
Dicono che qualcuno (Malagò) la vorrebbe convincere a continuare sino ai Giochi di Rio.
«La decisione è presa».
Un giorno disse che le sarebbe piaciuto lavorare nella federazione, magari diventare presidente.
«Sono cose che si dicono, così, un po’ per spararle grosse, ma in fondo chi può dire cosa accadrà?».
E adesso, si sposerà?
«Con calma…»
Tornerà a vivere in Italia?
«Sì».
Figli?
«Ma certo, mi vedo mamma, fra qualche anno».
E se avrà un figlio gli insegnerà a giocare a tennis?
«Non mi sento così brava a insegnare a qualcuno il tennis. Forse sarebbe più bravo Fabio (che annuisce, ndr)».
A quali altri tornei la vedremo prima di appendere la racchetta?
«A Wuhan, a Pechino e poi se rientro nella “race” per i Masters di Singapore (ora al n. 6 quindi è dentro, ndr), perché no?».
Insomma, Flavia, un risultato straordinario a coronamento di una grande esperienza sportiva.
«Non posso dire che sto qui a non crederci. Ci credo, me lo sento addosso e credo di essermelo meritato per tutto il lavoro che ho fatto, soprattutto negli ultimi mesi. Io e Navarro ci siamo rimessi a lavorare duro dopo la sconfitta di Wimbledon al primo turno, fatica, carichi, cose che non si smaltiscono in pochi giorni. Non stavo bene né a Toronto né a Cincinnati. Ma a New York le gambe erano pronte».
Dicono che sia anche dipeso dal fatto che il livello del tennis femminile si sia progressivamente abbassato. Lei non si offende vero?
«Non è completamente vero. Dietro Serena, che rimane la più grande, c’è un gruppo di ragazze che hanno semmai alzato la qualità del loro gioco, e fra di loro si alternano, c’è la Sharapova, la Halep, la Kvitova. E poi noi».
Le quattro moschettiere azzurre, che storia.
«L’una ha trainato l’altra, io sono diventa Top Ten, Francesca subito dopo ha vinto Roland Garros, poi sono arrivate Sara e Roberta, e questo ha fatto sì che si creasse una competizione molto sana, anche se non sono mancati i vaffa».
Cosa vuole adesso?
«Una vita diversa, intanto un po’ di tempo per pensare a cosa farò, come si dice in questi casi, da grande. Sicuramente non vedo una vita futura lontana dal tennis al 100%, a casa mia solo il gatto non giocava a tennis».
Se potessimo tagliare la sua carriera in due parti, quale sarebbe il “turning point”, il punto di svolta?
«Credo il 2007, la fine della mia storia d’amore (con il tennista Moya, ndr) è stato il fulcro doloroso di una rinascita, ero rimasta viva ma con un dolore fisico tremendo. Ero brutta, secca, provata, non capivo (l’ha scritto nel suo libro “Dritto al cuore”, ndr) da dove avrei potuto riprendere le forze per tornare in campo. E invece…».