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 2015  settembre 14 Lunedì calendario

L’ultima mano di poker per la riforma Boschi che prevede l’addio al bicameralismo. Renzi si gioca tutto. Uno scontro dentro e fuori la maggioranza che ricorda altri momenti duri della Repubblica: dalla “legge truffa” ai referendum su divorzio e scala mobile

Per Matteo Renzi è l’ora della pugna decisiva, in cui forgiare il suo destino da Caro Leader, autentico e duraturo. Dalla battaglia del Senato, sulla riforma costituzionale che porta il nome di Maria Elena Boschi, dipende il prosieguo di questa diciassettesima legislatura. Il presidente del Consiglio sta giocando questa partita come se fosse una mano di poker al buio, sul filo dei numeri a Palazzo Madama, reclutando ex berlusconiani del calibro di Denis Verdini ed ex grillini e sparando contro la minoranza del suo partito, rappresentata da due facce antiche e ammaccate della Ditta, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Se dovesse vincere, senza compromessi sull’elettività del Senato, imprimerebbe una torsione mai vista al sistema repubblicano, investendo e cancellando ben 70 articoli della Costituzione, con una sola Camera a dare la fiducia al governo e una legge elettorale, l’Italicum, che darebbe la maggioranza assoluta a un solo partito con appena il 40 per cento dei voti. A fermare Renzi, in questo caso, potrebbe essere solo il referendum confermativo della riforma, probabilmente nell’autunno del 2016. Al contrario, nello scenario opposto, se dovesse perdere nell’aula del Senato, la sua doppia e giovanissima leadership, di partito e di governo, potrebbe essere pericolosamente azzoppata. Soprattutto se il capo dello Stato, Sergio Mattarella, non sciogliesse il Parlamento e desse l’incarico per un nuovo esecutivo. Durante la Prima Repubblica sono stati almeno tre i leader che hanno legato il proprio destino a una battaglia epica. Ci fu chi vinse nelle aule ma perse nel Paese: Alcide De Gasperi e la “legge truffa” del 1953; chi tramontò da solo contro tutti in un referendaria nel 1974: Amintore Fanfani e la guerra contro il divorzio; chi azzardò e la spuntò a sorpresa: Bettino Craxi e il referendum sulla scala mobile nel 1985.
Il leader della Dc voleva la maggioranza
Lo statista democristiano Alcide De Gasperi aveva 72 anni quando affrontò la sfida fatale della legge elettorale passata alla storia come “legge truffa”. Era il 1953, tra la primavera e l’inizio dell’estate. De Gasperi, alla guida del suo settimo governo, voleva costituzionalizzare il sistema Dc, uscito trionfante dalle elezioni del 1948 con il 48 per cento dei voti, con una legge che avrebbe dato il 65 per cento dei seggi alla coalizione vincente con il 50 per cento. Solo in confronto all’Italicum, la “legge truffa” meriterebbe una completa riabilitazione. Il Pci di Palmiro Togliatti si battè con ogni mezzo contro l’approvazione. Non solo in Parlamento. Ci furono anche scontri di piazza e a Montecitorio Pietro Ingrao si presentò sventolando un fazzoletto insanguinato a causa di una manganellata. Tra i “piccoli” laici alleati della Dc, si levò la voce dissidente del repubblicano Ferruccio Parri, glorioso azionista ed ex presidente del Consiglio. Nell’aprile di quell’anno, l’Unità titolò a caratteri cubitali in prima pagina: “Parri si dimette dal Pri per protesta contro la legge truffaldina”. L’approvazione a Palazzo Madama fu velocissima. Avvenne la domenica delle Palme, che in quel ’53 cadeva il 29 marzo. Per evitare il colpo di mano dc, il presidente del Senato, Giuseppe Paratore, vecchio liberale crispino, si era dato alla fuga. Al suo posto, Meuccio Ruini che poi si dimetterà anche lui a giugno. Il comunista Clarenzo Menotti sradicò lo scrittoio dal suo banco, comprensivo dell’acuminato calamaio, e lo lanciò contro Ruini, ferendolo. Il suo collega Velio Spano, fu bloccato mentre tentava il lancio di una poltrona. Botte soprattutto ai repubblicani Ugo La Malfa, schiaffeggiato, e Randolfo Pacciardi, cui un pugno ruppe gli occhiali. Alle elezioni del 7 e 8 giugno però De Gasperi perse. La sua vittoria parlamentare fu effimera, seppur per poco: per soli 55mila voti il premio di maggioranza non scattò. Al Quirinale, il presidente Luigi Einaudi gli diede l’incarico per il suo ultimo governo, l’ottavo. Durò due settimane. Poi toccò a Giuseppe Pella. La leadership di De Gasperi tramontò così. L’ultimo sussulto fu la sua tormentata elezione a segretario della Dc nel settembre del ’53. Ma già scalpitava il nuovo cavallo di razza dc: l’aretino Amintore Fanfani. De Gasperi morì un anno dopo, nell’agosto del ’54. Oggi, per la Chiesa, è un servo di Dio, in attesa della beatificazione.
La guerra solitario per “non calpestare i figli”
Amintore Fanfani, cui Matteo Renzi è stato più volte paragonato, per l’irruenza e la toscanità e il doppio incarico di partito e di governo, finì il suo ventennio da cavallo di razza della Dc così come la aveva iniziato nel 1954: da segretario della Balena Bianca (copyright Giampaolo Pansa). L’epico referendum sul divorzio, che divise in due la parabola della Prima repubblica, ancora prima della tragedia di Aldo Moro, si tenne il 12 maggio 1974. I no all’abrogazione della legge voluta dal liberale Baslini e dal socialista Fortuna, approvata nel 1970 e figlia della battaglia radicale di Marco Pannella sin dall’inizio degli anni sessanta, i no, dicevamo, furono il 59,1 per cento (19 milioni e 138.300), e i sì si fermarono al 40,9 per cento (13 milioni e 157.558). Fanfani chiuse la campagna referendaria il 10 maggio in piazza Duomo a Milano: “I figli non devono essere calpestati dal capriccio dei genitori”. In tre anni, dal 1970 al 1973, le trattative tra Dc e Pci per evitare il referendum, chiesto dai cattolici oltranzisti di Gabrio Lombardi, furono estenuanti e inutili. A causare il fallimento della mediazione fu soprattutto l’elezione al Quirinale nel dicembre ’71 del democristiano Giovanni Leone, sostenuto da un blocco di centrodestra. Lo stesso Fanfani era il candidato ufficiale della Dc per succedere a Saragat. Alla fine il referendum fu caricato di tanti significati, dalla battaglia civile dei pannelliani nel Paese allo stop da destra della strategia del compromesso storico, in caso di vittoria dei sì. I dc contrari alla prova di forze delle urne erano vari: Aldo Moro, il premier Rumor, Donat-Cattin, Francesco Cossiga. Un irriducibile referendario fu invece Oscar Luigi Scalfaro. Dopo la disfatta, la segreteria andò al moroteo Benigno Zaccagnini. Fanfani finì come riserva della Repubblica, nel cimitero degli elefanti politici.
Berlinguer, l’ictus e l’addio di Napolitano
Il referendum sul taglio della scala mobile cadde a metà della lunga permanenza del leader socialista Bettino Craxi a Palazzo Chigi, dal 1983 al 1987. Si votò il 9 e il 10 giugno 1985 e il presidente del Consiglio aveva già fatto annunciare dal suo delfino Claudio Martelli: “In caso di vittoria dei sì, il governo si dimetterà un minuto dopo”. Era l’epoca del pentapartito. Sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia profetizzò: “Se il Pci fallisce sarà la più grave sconfitta della sua storia”. E così fu. I cittadini furono chiamati a pronunciarsi sul fatidico accordo di San Valentino del 1984, con cui un decreto cancellava il meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione. In sostanza, il taglio della contingenza, quattro punti di scala mobile (in realtà furono tre). Il 7 gennaio del 1984 la direzione del Pci di Enrico Berlinguer, che considerava Craxi “un avventuriero e un bandito”, votò contro ogni possibilità di accordo e la Cgil di Luciano Lama non firmò. L’intoccabilità della scala mobile e la mossa del referendum furono l’atto estremo dell’isolamento del cosidetto “ultimo Berlinguer”. Nel Pci, il migliorista Giorgio Napolitano, capogruppo alla Camera, tentò di impedire la deriva referendaria. Non ci riuscì. Il 7 giugno, il suo omologo e amico al Senato, Gerardo Chiaromonte annunciò l’avvio della raccolta delle firme. Quello stesso giorno a Padova, Berlinguer fu stroncato dall’ ictus. In tasca aveva le dimissioni di Napolitano da capogruppo. Un anno dopo i no furono oltre 18 milioni (54,30 per cento). Il sì non andò oltre 47,70.