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 2015  settembre 14 Lunedì calendario

Innamorarsi della matematica. Così Andrea Sironi, il rettore della Bocconi, mette sulle spalle di 700 prof delle scuole superiori la responsabilità di far appassionare i liceali alla cultura scientifica. Il capo dell’ateneo milanese, che è salito al nono posto del ranking mondiale, racconta la sua università, dagli investimenti «24 milioni l’anno in diverse agevolazioni, dalle borse di studio fino alle esenzioni. E assegni che coprono totalmente i costi. In totale, tra agevolazioni private e pubbliche, sono circa 2 mila su 14 mila gli studenti Bocconi che godono di un sostegno» allo scambio di studenti che «non è solo un’opportunità per i giovani che viaggiano, ma anche per il Paese che gli ospita. Aiutano i consumi e l’integrazione culturale»

«Qualche giorno fa ho incontrato 700 insegnanti di matematica delle scuole superiori e ho detto loro: “Voi avete una grande responsabilità sulle vostre spalle: fare innamorare gli studenti – tantissimi ragazzi e ragazze dei grandi licei sono davvero bravi – della cultura scientifica”. È questa la formazione universitaria di cui c’è più bisogno in Italia, dalle scienze della vita fino a quelle tecniche e sociali, come l’economia». Sono le parole di Andrea Sironi, 51 anni, rettore dal 2012 dell’università Bocconi. Di quell’ateneo, quindi, considerato la fucina della classe dirigente italiana.
Proprio oggi, nelle nuove rilevazioni del Financial Times, la laurea biennale in International Management dell’ateneo milanese è salita al nono posto nella classifica mondiale dei master di gestione aziendale. Qualche giorno prima l’americana Forbes ha posizionato il master in business administration (mba) di Sda Bocconi al quarto posto nella classifica dei programmi annuali extra—Usa. «E – spiega Sironi – siamo sempre tra i primi 15-20 atenei al mondo nei ranking sul numero di ex studenti diventati amministratori delegati di grandi imprese».
Una vera classe dirigente, però, deve anche essere socialmente mobile: con la possibilità, per i giovani in via di formazione, di studiare nei grandi atenei indipendentemente dalle proprie possibilità economiche.
«La Bocconi investe 24 milioni l’anno in diverse agevolazioni, dalle borse di studio fino alle esenzioni. E puntiamo ad aumentare in modo rilevante questo tipo d’investimento da qui al 2020. Gli aiuti sono concessi soprattutto in base al reddito, ma ci sono anche iniziative che guardano esclusivamente al merito. E assegni che coprono totalmente i costi. In totale, tra agevolazioni private e (in misura minore) pubbliche, sono circa 2 mila su 14 mila gli studenti Bocconi che godono di un sostegno».
Molti dei vostri studenti, una volta laureati, decidono di andare a lavorare all’estero. Non è una perdita per l’Italia – dove sono cresciuti e hanno studiato – e per le potenzialità della classe dirigente tricolore?
«Certamente ci sono tanti italiani che vanno all’estero, ma ci sono anche molti stranieri che arrivano in Italia per studiare all’università e, una volta laureati, restano e lavorano. Milano da sola ospita 13-14 mila studenti stranieri. Senza contare, poi, gli italiani che dall’estero, ricchi di un’esperienza internazionale, tornano nel nostro Paese. L’integrazione e la mobilità internazionale, insomma, aiutano. Il punto non è tanto frenare le partenze verso prestigiose mete estere, quanto riuscire ad attirare qui i migliori studenti stranieri. Dal 2000 al 2013 è salito da 2 a 4,7 milioni il numero degli studenti delle nazioni dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) che frequentano corsi al di fuori del proprio Paese. Alla Bocconi abbiamo studenti da più di 80 nazioni».
La mobilità internazionale è naturalmente a doppio senso. Eppure non c’è il «rischio» che qui in Italia, con i ben noti problemi occupazionali, i migliori posti di lavoro disponibili alla fine vadano ai talenti stranieri?
«Lo scambio di studenti non è solo un’opportunità per i giovani che viaggiano, ma anche per il Paese che gli ospita. Aiutano i consumi e l’integrazione culturale; se restano a lavorare, finanziano il sistema con tasse e contributi; infine, con le loro idee e iniziative, possono anche creare nuova occupazione. Senza contare poi, appunto, il ritorno dall’estero degli italiani dopo importanti esperienze formative o professionali. I vantaggi sono generali».
I «ranking» internazionali vi assegnano posizioni importanti. Ma sono davvero esaustivi?
«Non sempre, ma a nostro svantaggio. Penso al criterio degli stipendi post laurea: molti dei nostri ex studenti lavorano in Italia, dove le retribuzioni sono più basse rispetto a quanto succede in Paesi del Centro e Nord Europa, dove quindi gli atenei locali partono in un certo senso favoriti in alcune classifiche».
Proprio nel Centro e Nord Europa esistono diverse università pubbliche che offrono contemporaneamente un’ottima qualità dell’insegnamento, costi contenuti ed esperienza internazionale da cima a fondo. Rappresentano anche loro una sfida per voi (oltre ai grandi nomi degli atenei privati, come quelli americani)?
«Una sfida, che ci vede comunque più in alto in termini di classifiche e di forza del brand, per esempio; ma anche un’opportunità, grazie agli accordi di scambio che firmiamo proprio con questi atenei europei. Che sicuramente meritano, tanto che li consiglierei ai miei figli, dopo la Bocconi come prima scelta».