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 2015  settembre 11 Venerdì calendario

La profonda crisi (politica ed economica) del Brasile. Da un paio d’anni, dopo la lunga galoppata del Pil, la crescita del Paese si è interrotta. Nel 2015 il tasso di sviluppo farà registrare un -2 per cento. Ad aggravare la situazione il crollo dei prezzi delle commodities e la fine del Qe americano. Ma l’austerity di Dilma Rousseff sta dando buoni risultati, non tutto è perduto...

È davvero inafferrabile questo Brasile, sprofondato in una grave crisi politica ed economica. Nel 1565 il gesuita spagnolo José de Anchieta scrisse una grammatica della lingua tupi, primo tentativo di interpretare e irregimentare gli indios che abitavano Rio de Janeiro. Esattamente 450 anni dopo siamo ancora qui a offrire tentativi di risposta all’evoluzione di un Paese che pareva lanciato verso l’apogeo della gloria economica e dell’integrazione sociale. Poi l’inaspettato tracollo.
Correva l’anno 2000 e... tutti gli indicatori segnavano progressi interessanti, diventati strepitosi pochi anni dopo; quell’odiosa stimmate di “Brasile, Paese del futuro” lanciata nel 1941 dall’austriaco Stefan Zweig pareva finalmente dissolversi. La profezia autoavverata si è ripetuta per più di sessanta anni, finché economisti, imprenditori, sociologi ma soprattutto i 200 milioni di brasiliani hanno saputo ribaltare quell’imperituro giudizio di condanna. Nessun dubbio, il Brasile assurge a potenza mondiale.
A leggere i report delle agenzie di rating, in particolare di Standard & Poor’s, pare sia crollato tutto. Un “Contrordine compagni” che spinge i titoli brasiliani al grado di junk.
Proviamo a fare chiarezza. Crisi sì, tracollo no. Da un paio d’anni, dopo la lunga galoppata del Pil, la crescita del Brasile si è interrotta. Nel 2015 il tasso di sviluppo farà registrare un -2 per cento.
Il ministro brasiliano dell’Economia, Joaquim Levy, ha ammesso la criticità dei dati brasiliani e non ha dissimulato le sue inquietudini: «Se la nostra affidabilità viene considerata in declino, sarà più difficile recuperare, risalire la china».
Sono tre i fattori che provocano il rallentamento dell’economia brasiliana: 1)Il crollo dei prezzi delle materie prime internazionali, di cui il Brasile è esportatore. 2) Il rallentamento della Cina. 3) La fine del Quantitative Easing (Qe) americano, di cui avevano beneficiato anche alcuni Paesi latinoamericani.
La caduta dei prezzi delle commodities ha determinato un peggioramento della bilancia dei pagamenti. A peggiorare il quadro è la fine del Qe americano che smorza l’onda lunga di capitali finanziari in arrivo sulle coste brasiliane.
Fattori che costringono Dilma Rousseff, all’inizio del suo secondo mandato elettorale, a varare una politica economica improntata all’austerity; in altre parole ridurre il deficit strutturale dello Stato attraverso il contenimento di quella spesa sociale che ha caratterizzato i due mandati dell’ex presidente Lula. Arrivano gli aumenti di tasse, meno sussidi di disoccupazione e razionalizzazione della pubblica amministrazione brasiliana.
L’inflazione al 9%, conseguente alla svalutazione del real che, negli ultimi sei mesi ha perso il 30% rispetto al dollaro, inasprisce le tensioni sociali.
L’austerity, si sa, non dà appoggio popolare ai governanti. Poco dopo lo scandalo Lavo Jato (autolavaggio): dal colosso energetico Petrobras sono fluiti miliardi di dollari al Pt (Partito dei lavoratori) di cui Rousseff è presidente. È la madre di tutte le tangenti e oscura la politica verdeoro. Il crollo della popolarità di Rousseff, scesa al 9%, è l’indicatore più evidente della disaffezione dei brasiliani alla politica.
Tuttavia la manovra economica del governo sta dando i primi risultati. Nel primo semestre dell’anno si è interrotto il trend negativo dei conti con l’estero. E le scelte di politica monetaria della Banca centrale (deprezzamento del real) rilanciano la competitività del Paese. Sorprende che proprio ora le agenzie di rating emettano delle valutazioni così penalizzanti.