Corriere della Sera, 14 dicembre 2010
La violenza con cui furono repressi i dialetti
C’è qualcosa di rozzo e di semplicistico negli spot della Rai per l’Unità d’Italia. Quella che viene agitata è l’idea di un Paese babelico, dove non c’è verso di capirsi. Poi per fortuna arriva l’unificazione nazionale, che, come una Pentecoste, consente a tutti di intendersi. Ma a quale prezzo, viene da chiedersi? Nel 1861 l’ 1-2 per cento della popolazione decise come dovesse parlare il restante 98-99 per cento. Come sappiamo, una lingua non è una nomenclatura: è un’idea del mondo. L’italianizzazione forzosa condotta a colpi di grammatiche e di maestrine dalla penna rossa ha estirpato quella che venne allora chiamata la «malerba dialettale», omologando gli italiani a un codice pseudo-esperantico che per secoli era risultato malnoto agli stessi scrittori. Ma quella toscanizzazione ha comportato la delegittimazione dei mondi e delle culture che ogni dialettofono si portava dentro insieme alla propria lingua. Ha significato la cancellazione di visioni della vita, di immaginari, di risonanze interiori, di sentimenti, insomma di tutto quanto ogni parlante associa al codice materno. Si è trattato di una vera e propria catastrofe antropologica, che aveva indubbiamente una funzione pratica. Ma che ora i grandi pensatori della Rai ce la vendano come un progresso, lascia perplessi. Si è trattato invece dell’attuazione di un disegno illuministico e giacobino, portato avanti dalle classi dirigenti post-unitarie con la sprezzante condiscendenza di chi osservi fenomeni bizzarri appartenenti a culture ritenute inferiori e arretrate. In realtà dietro a questo atteggiamento non c’è un punto di forza, ma c’è tutta l’incapacità di quelle classi di farsi nazione, di aggregare le masse popolari intorno a un progetto condiviso. Viva la scuola, certamente, e viva la lingua nazionale, ma senza scordare che una seria educazione linguistica deve mostrare l’eguaglianza di tutti i codici e sensibilizzare i parlanti alle diverse situazioni comunicative. Ci si è invece limitati a insinuare nella gente l’idea che il dialetto e tutto ciò che vi è connesso fossero subcultura, sottostoria. E che occorresse sbarazzarsene prontamente per entrare nella storia. Oggi siamo tutti orgogliosi di essere italiani e italiana è la lingua in cui svolgo queste considerazioni. Ma dimenticare su quali sacrifici si è costruito ciò che siamo diventati mi pare un’operazione che non faccia onore a nessuno.