la Repubblica, 9 settembre 2015
Fabio Aru, il bambino nato leader, alla ricerca dell’impresa alla Vuelta. «Ho le gambe per farcela. Sento fiducia, entusiasmo intorno a me. Sono cresciuto molto come corridore e come uomo negli ultimi due anni, da quest’inverno mi sono preparato per essere il leader, e la squadra mi ha messo a disposizione uomini e mezzi»
L’abbronzatura si ferma alla punta del naso. Le mani grandi, non da ragazzo. Alto, sereno, come certi campanili sardi, conficcati nel cielo. Alle cinque della sera, quando il rosso inizia a spandersi sulla campagna castigliana, Fabio Aru beve un sorso d’acqua. Sorride, bello direbbero alcuni vecchi suiveurs, bello in viso. Cioè fresco. Nonostante i 17 giorni di Vuelta. Nonostante la crono di oggi, un ricciolo all’ombra della Cattedrale di Burgos, che potrebbe riportare sotto Dumoulin e Majka e fare ancor più larga la lotta per la maglia rossa. Aru, più anziano dei suoi 25 anni, prende una boccata d’aria. Poi sorride, di nuovo.
«Succeda quel che deve, non so quanto perderò, non so che classifica verrà. So che i giorni che verranno saranno una lotta sul filo dei secondi. Sono pronto».
È “sono pronto” quel che sembra dire il toro nell’arena. Ma qui chi è il toro, e chi il torero?
«Siamo sulla stessa linea, in quattro, Purito è davanti, Majka e Dumoulin più forti a cronometro, io ho dimostrato di averne di più in montagna».
Finché c’è stata montagna. Alla Vuelta si sono viste rampe di garage. Che spettacolo è stato?
«Entusiasmante, credo che il ciclismo sia entrato nella dimensione giusta, quella dell’avventura, della scoperta, del nuovo».
E lei in che dimensione è?
«Sento fiducia, entusiasmo intorno a me. Sono cresciuto molto come corridore e come uomo negli ultimi due anni, da quest’inverno mi sono preparato per essere il leader, e la squadra mi ha messo a disposizione uomini e mezzi».
Ha sentito Vinokourov?
«Mi manda messaggi ogni giorno, mi incoraggia».
E Nibali, l’ha più sentito dopo l’espulsione per il traino dell’ammiraglia?
«Non c’era malizia nel suo gesto, ci siamo sentiti qualche giorno dopo. È carico, vuole fare un grande Mondiale».
Nibali è stato l’ultimo dei cinque italiani vincitori della Vuelta. Conterno, Gimondi, Battaglin e Giovannetti la vinsero quando contava forse meno e si correva ad aprile. Il sesto potrebbe essere lei, a 25 anni.
«Ho ancora un’ottima gamba, le responsabilità mi caricano. Sono così».
Sarebbe l’unico nel 2015 a chiudere nei primi tre in due Grandi Giri. Nemmeno Contador, il suo idolo, c’è riuscito.
«Contador è stato decisivo, nel senso che mi sono appassionato al ciclismo vedendo lui vincere il Tour 2007. Ho fatto mountain bike prima, dopo ho deciso per l’asfalto. Non si torna mai indietro. In Sardegna la bici non esiste, il mare che ci separa dalla terraferma è un oceano e da noi non ci sono gare».
È un anno speciale per la Sardegna, campione d’Italia con Sassari nel basket.
«Ci siamo svegliati anche noi. A Villacidro c’è una grande attesa, qualche tifoso arriverà e giovedì arriva anche la mia ragazza, Valentina. La sua è una vita complicata, la costringo a inseguirmi, ma quando può, come a Cervinia al Giro, c’è sempre».
Questa Vuelta potrebbe decidersi in discesa. Che rapporto ha col rischio?
«Mia madre mi ha sempre chiesto, scongiurato di non fare il matto in discesa, però in picchiata so andare e non mi tirerò indietro, se sarà necessario. Potrebbe esserlo: tutto si deciderà per pochi secondi».
Deluso da Quintana, stupito da Dumoulin, dispiaciuto per Froome?
«Quintana viene dal Tour, è difficilissimo correre due grandi corse a tappe ravvicinate. Non ho detto impossibile, solo difficilissimo. Quindi un giorno mi piacerebbe provare, le sfide grandi mi piacciono da morire. Dumoulin è una sorpresa, è un corridore di gran classe. Chris è stato sfortunato, ma non era quello del Tour».
Gli spagnoli stravedono per lei, li entusiasma il suo sforzo totale, la sua sofferenza mai nascosta.
«Un popolo fantastico e un pubblico innamorato del ciclismo, sportivissimo poi. Niente di quello che è accaduto a Froome al Tour potrebbe accadere qui. È stata una pagina vergognosa. Qui c’è un vamos per tutti, un venga, venga, venga per tutti. Nel cuore di un corridore ogni incitazione arriva, arrivano tutte. E ti fanno spuntare forze chissà come, le tirano fuori chissà da dove».
Quanto le manca Paolo Tiralongo, il gregario più fedele, per cui al Giro spese anche lacrime di amicizia?
«È un padre per me, una persona fondamentale in corsa e fuori, è stato eroico dopo la caduta qui, quando ha cercato di correre con un occhio bendato. L’ha fatto solo per me, lo so. Cose così tengono incollata alla tv tanta gente, nonostante quello che è successo negli ultimi anni: a me piace essere parte di questo mondo».
Progetti per il futuro?
«Vincere in bici, fare il possibile per essere ricordato, per regalare emozioni, e dopo il ciclismo una vita serena. Non ho grilli per la testa, sono un sardo di Villacidro».