La Stampa, 8 settembre 2015
Già sette anni fa, nel 2008, il Gambero Rosso consegnò il premio per la miglior carbonara di Roma a Nabil Hadj Hassen, tunisino, cuoco di «Roscioli», a due passi da Campo de’ fiori, e al secondo posto si piazzò il bangladese Ajit Ghosh dell’«Arcangelo» al quartiere Prati
La perfetta rosolatura del guanciale è una questione tunisina. Se l’amatriciana vada sfumata con vino bianco, e se il sugo con la cipolla sia sacrilego oppure no, è materia bangladese e forse la notizia del giorno è che alla «Gatta Mangiona», dove si sforna una delle pizze più celebri di Roma, un ragazzo italiano sta entrando nell’elitario club degli egiziani, costituito da due pizzaioli e due cuochi. Infatti ci furono tempi in cui si scriveva, fra l’esotico e il millenaristico, che i migliori interpreti della margherita e della quattro stagioni non venivano più da Napoli ma dal Nord Africa.
Il titolare della «Gatta Mangiona», Giancarlo Casa, racconta che «è dagli Anni ’70 che gli stranieri sono entrati nella ristorazione romana. All’epoca erano soprattutto egiziani, che lavoravano di più e talvolta venivano pagati di meno ma, soprattutto, allora agli italiani pareva umiliante raccontare in giro di essere pizzaioli o aiuto cuochi, faceva molta più scena dire di essere ragionieri. Fa ridere, ma era così». Il fenomeno è cresciuto rapidamente, è diventato andazzo, ma adesso qualcosa sta cambiando, dice Casa, «un po’ per la crisi, e si prende il lavoro che c’è, e soprattutto perché l’idea di essere impiegati nella ristorazione si è molto nobilitata. Io alla “Gatta Mangiona” ho due pizzaioli e due cuochi egiziani perché gli italiani faticano a reggere i ritmi, non vogliono lavorare ogni sabato sera perché devono portare la fidanzata a ballare e roba del genere. Adesso ho questo ragazzo italiano che ha volontà e talento, vediamo...».
Il problema è che potrebbe essere un pochino tardi visto che già sette anni fa, nel 2008, il Gambero Rosso consegnò il premio per la miglior carbonara di Roma a Nabil Hadj Hassen, tunisino, cuoco di «Roscioli», a due passi da Campo de’ fiori, e al secondo posto si piazzò il bangladese Ajit Ghosh dell’«Arcangelo» al quartiere Prati. Il «New York Times» impazzì e ci scrisse sopra corrispondenze dal sapore epocale. Perché, in effetti, non si trattava più della sola e per quanto mitologica pizza, ma di piatti della tradizione romana che ogni turista immagina cucinati dalla nonna del ristoratore secondo le procedure dei tempi di Rugantino. Stiamo parlando di due cuochi di Roma a un passo dalla canonizzazione, e non solo per questioni gastronomiche. Nabil, 51 anni, da 10 star di «Roscioli», è in Italia da quasi 30 anni, l’ha girata da Sud a Nord, e ha cominciato da lavapiatti per cui, ancora oggi, dice che «la base della cucina è saper lavare i piatti».
Peccato che i ragazzi non ne abbiano nessuna voglia, «i ragazzi escono da costosissime scuole di cucina e non sanno fare niente di niente, non sanno nemmeno impugnare un coltello, sbattono contro una realtà a cui sono totalmente impreparati». Nabil, dice Valerio Capriotti, collaboratore dei «Roscioli», «sabato ha preparato 92 piatti di pasta. Un discreto decente piatto di amatriciana, più o meno sono capaci di farlo tutti. Sapete che significa, per capacità, concentrazione, sforzo fisico, sangue freddo, fare novantadue piatti di pasta all’altezza delle aspettative? Sono imprese a cui gli italiano sono spesso meno pronti».
E infatti le cose sono andate più o meno così da «Cesare al Casaletto» (Villa Pamphili), celebrato come un sacro custode della tradizione romana. Ma anche lì gricia e cacio e pepe sono in mani bangladesi, quelle di Arif Hossain, 32 anni, e dei suoi tre aiuti e compatrioti. «Gli ho insegnato come si fa e paradossalmente, non avendo delle pretese artistiche, o delle convinzioni tramandate in famiglia, Arif ha imparato perfettamente», dice il titolare, lo chef Leonardo Vignoli. Chiunque mangi da lui pensa di imbattersi nelle sapienti mani di una sora Lella, e invece sono le mani di Arif la cui qualità di partenza, dice Vignoli, è di essere «affidabile per impegno, serietà, disponibilità. Arif ha capito, come ogni grande cuoco, che bisogna essere puntuali nell’orario d’ingresso ed elastici nell’orario di uscita, ed è un’apertura mentale che un italiano ha sempre più di rado. Gli stranieri che vengono qui e riescono a imparare un lavoro, specie se importante come quello di cuoco, sanno di essere fortunati». Gli italiani, aggiunge Capriotti di «Roscioli», «anche i più volenterosi, si spaventano per la mancata corrispondenza fra le loro conoscenze teoriche e la mole di lavoro che gli è richiesta, qualità compresa». E non ci vogliono particolare capacità intuitive per realizzare che il mondo non si divide fra italiani e stranieri, ma fra chi sa preparare una carbonara e chi no.