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 2015  settembre 08 Martedì calendario

Il tramonto improvviso di Andrea Pirlo, da indispensabile si ritrova ad essere un problema. È un uomo che parla poco e, come quasi tutti i taciturni, quando lo fa dice cose sensate. Tipo, nell’intervista americana alla Gazzetta dello sport: «Sono venuto a New York prima che la Juve mi mandasse via». Ora dovrebbe dire, o meglio ri-dire: «Lascio la nazionale prima che la nazionale lasci me», come ha cominciato a fare

Andrea Pirlo è un uomo che parla poco e, come quasi tutti i taciturni, quando lo fa dice cose sensate. Tipo, nell’intervista americana alla Gazzetta dello sport: «Sono venuto a New York prima che la Juve mi mandasse via». Ora dovrebbe dire, o meglio ri-dire: «Lascio la nazionale prima che la nazionale lasci me», come ha cominciato a fare. Lo aveva già deciso prima dei mondiali in Brasile e ribadito nell’accorato discorso d’addio ai compagni dopo la disfatta. Poi ha cambiato idea: un po’ per il conto presentatogli dal giudice che ha sancito il suo divorzio (55mila euro al mese in alimenti, e si sa che un giocatore nel giro internazionale guadagna di più) e molto per il canto delle sirene (il neo ct Conte, il neo presidente Tavecchio, la vecchia Italia al completo) che l’hanno definito “indispensabile”. Tutti abbiamo sperimentato questo sentiero lungo il quale un attimo dopo sei “una risorsa”, quindi “un problema”, poi non ci sei più.
Il ct ti richiama dall’esilio americano, ti fa giocare, ti difende dalle critiche, ti dà 6, anzi 6,5 perché è un generoso, poi ti accantona per la partita decisiva. Alla cui vigilia l’amministratore delegato della Juve, fin lì un signore assoluto, ti suggerisce più o meno velatamente la pensione. E all’indomani della quale il commento unanime della stampa è: toh, Verratti gioca meglio da solo. E tu da solo riprendi l’aereo per New York.
Ci sono stato, a New York, allo Yankee Stadium (che sarebbe quello del baseball) a veder giocare Pirlo con la maglia celeste della seconda squadra della città (la prima gioca nel New Jersey) e degli sceicchi di Etihad (la prima è a Manchester). Era l’ultimo sabato dello scorso agosto, faceva un caldo torrido e la folla scendeva dalla metropolitana della linea 4 con l’aria di chi va a una celebrazione: invece del santo patrono, il Maestro. Per arrivare ai cancelli bastava seguire una casacca Pirlo 21. Famiglie allargate in ogni possibile senso pregustavano la gioia di un bidone di pollo fritto e quella di un passaggio preciso. Sedendomi, un po’ come lui, nel posto sbagliato al momento giusto mi sono ricordato di Dominique Wilkins. Si tratta di un cestista entrato nella storia, nel bene e nel male, in due mondi. Giocò alla grande con gli Atlanta Hawks e molto bene con i Los Angeles Clippers e i San Antonio Spurs. Poi decise di svernare alla Fortitudo Bologna. Preceduto dalla reputazione di “secondo soltanto a Michael Jordan” (in realtà è il dodicesimo miglior marcatore della Nba, ma può bastare) trasformò il sogno di un inedito scudetto in certezza prima, illusione poi. In gara 5 proprio lui commise un fallo da esordiente propiziando il canestro da 4 punti di Danilovic (tiro da 3 dentro, più libero a seguire). Quanto a Pirlo, danzava sulla sua solita mattonella, facendo quei movimenti laterali che sembrano a vuoto ma gli consentono di prendere le misure del lancio e proiettarne la traiettoria, tuttavia gli mancava qualcosa. La compagnia di ballo, probabilmente (Villa è, da tempo, un’ombra, Lampard aveva ancora il jet lag e il pubblico invocava il ghanese Poku, un giocoliere più che un giocatore). La motivazione, certamente. Gli perdonavano tutto, lo amavano per qualunque cosa. Tre volte è andato a battere un calcio d’angolo e tre volte è stato accolto come se avesse appena segnato con la “maledetta”, ma quando è stata ora di tirare una punizione, la “maledetta” era rimasta a Torino. Eppure, applausi. Lì mi sono ricordato di Baggio a Bologna. E di Ulivieri, allenatore al tempo, che avrebbe preferito vincere con Nervo perché non sopportava uno stadio intero «che smaniava per i corner di Baggio». Però quell’anno lui si riprese la nazionale e andò ai mondiali in Francia, sfiorando il gol che avrebbe buttato fuori ai quarti i futuri campioni. Baggio, però, faceva ancora luce, la batteria era carica. Se Pirlo se la fosse sentita, avrebbe dovuto (Juve permettendo) inventarsi ancora una o due stagioni nella provincia italiana. Lì gli ingaggi sarebbero stati inferiori e le sfide più dure. D’altronde nella vita tocca spesso scegliere e i soldi stanno al bivio con molte altre cose: l’arte, la libertà, il gioco. New York è una comprensibile scelta di vita, ma sarebbe calcisticamente meglio non tornarne, prenderla come se si fosse passati a un altro canale, visibili sul satellite e apparire nelle pagine sportive dei giornali italiani solo in una pubblicità di finestre, parte di un discreto centrocampo con Lahm e l’impronunciabile polacco della Fiorentina. Anche Pirlo gioca meglio da solo adesso, solo e lontano soprattutto da giudizi fuori tempo.