Il Messaggero, 8 settembre 2015
Caligari, il suo “Non essere cattivo” e l’arte di non sprecare una virgola. «E così adesso in Italia abbiamo un santo in più. San Claudio Caligari, regista e martire. Tre film in una vita, 1983, 1998, 2015, notate gli intervalli. E adesso la consacrazione a Venezia. Post mortem naturalmente. Perché siamo un paese cattolico, anche se poco praticante, e un regista di talento che si danna per fare film non ci fa molta impressione, ma un regista che si immola per la sua arte, beh, è un’altra faccenda». Il Festival di Venezia ricorda così un uomo di talento
E così adesso in Italia abbiamo un santo in più. San Claudio Caligari, regista e martire. Tre film in una vita, 1983, 1998, 2015, notate gli intervalli. E adesso la consacrazione a Venezia. Post mortem naturalmente. Perché siamo un paese cattolico, anche se poco praticante, e un regista di talento che si danna per fare film non ci fa molta impressione, ma un regista che si immola per la sua arte, beh, è un’altra faccenda. Finché fabbrichi immagini non sei nessuno, ma se metti in gioco il tuo stesso corpo si apre la scala per il Paradiso.
Così adesso lo stesso cinema italiano che dal ’98 ha lasciato in un angolo il talento, la passione e il caratteraccio di Caligari, applaude e si mette l’anima in pace. Così però non va. Troppo facile. Non essere cattivo sarebbe rimasto nell’affollato limbo dei film nel cassetto se Valerio Mastandrea non avesse fatto il diavolo a quattro, cari amici, converrà ricordarsene. Ma anche chiedersi cosa faceva tanta paura nel cinema di Caligari. La crudezza delle storie? L’esattezza antropologica? Il rifiuto dei compromessi? La “presunzione” di un regista che si richiamava insieme a Scorsese e a Pasolini?
Ma no, bastano pochi minuti di Non essere cattivo per capire cosa dava tanto fastidio. La bravura. La fluidità delle immagini. L’intelligenza del montaggio. L’arte di non sprecare una virgola. Due scene, tre battute, una panoramica, e di Cesare e Vittorio (Luca Marinelli e Alessandro Borghi, perfetti) sappiamo tutto. L’amicizia per la vita, le ragazze, le pasticche che si “calano” e quelle che spacciano. Il gusto per la rissa e le bravate. La noia delle giornate al bar e i due calci al pallone in spiaggia.
Perché siamo ancora a Ostia, come in Amore Tossico, ma nel 1995. E in spiaggia ci sono le siringhe degli odiati tossici, come quello che ha passato l’Aids alla sorella di Cesare e alla loro bambina. Ma non c’è tempo per piangere, ogni scena porta avanti il racconto, ogni digressione prepara una svolta, ogni personaggio che passa e magari racconta a sua volta una storia, perché la mitologia collettiva della borgata vive di storie e storielle, dà al film una dimensione in più.
MEAN STREETS
E una coloritura un po’ alla Mean Streets, un Mean Streets tardivo e disperato malgrado l’umorismo feroce di tante battute, alle vite bruciate di questi due ventenni o poco più. Che a un certo punto capiscono di non poter continuare così in eterno, cercano di rientrare nei ranghi, provano – orrore – a lavorare, si trovano perfino due ragazze (Silvia D’Amico e Roberta Mattei, efficacissime anche loro). Ma senza mai cambiare davvero, mentre i loro simili gli ridono dietro in una scena che salda acrobaticamente Accattone al «lavoratoriii...» di Sordi nei Vitelloni.
Perché Caligari non racconta certo storie “nuove”, al contrario. Ma dà a tutto un accento, un’energia, una profondità che nascono da un’osservazione attentissima della realtà (fondamentali i cosceneggiatori Giordano Meacci e Francesca Serafini, e la preziosa “guida” ai misteri di Ostia di Emanuel Bevilacqua, che nell’Odore della notte era il Rozzo). Unita alla capacità di cogliere la risonanza mitica delle vite più ordinarie. Anche se come ricorda lui stesso non siamo più ai tempi di Pasolini, dall’orizzonte di Cesare e Vittorio è sparito ogni rapporto col sacro, e se Accattone sognava la sua morte, Vittorio al massimo la “vede” in un’allucinazione da droga...
Che delitto che un regista così non abbia lavorato di più. Forse non avrebbe arricchito i produttori. Ma gli spettatori certamente sì.
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Un’ondata di commozione travolge il Lido. Gli applausi scattano in sala ogni volta che sullo schermo compare il nome di Claudio Caligari. Hanno gli occhi lucidi, gli attori, poi cedono all’emozione. Piange la signora Adelina, l’anziana mamma del regista scomparso il 26 maggio scorso dopo aver concluso le riprese del suo terzo e ultimo film Non essere cattivo che passa alla Mostra come evento speciale: da oggi, per Good Films, sbarcherà nelle sale con la sua storia intensa e struggente di un’amicizia fraterna nella Ostia anni Novanta ridotta a terra di nessuno dall’arrivo delle droghe sintetiche. E da un contesto così degradato che non lascia scampo né speranza.
«Claudio c’è, è qui con noi», esclama Valerio Mastandrea che ha prodotto il film, lo ha completato è si è battuto come un leone per trovare altri partner (Kimerafilm, RaiCinema, TaoDue, Leone Film Group). Ma nel giorno dell’omaggio c’è anche posto per una velata polemica: perché, si chiedono in tanti, un film potente come Non essere cattivo è fuori competizione? «Non è il momento di recriminare, l’importante è essere a Venezia», smussa Mastandrea, «anche se Alberto Barbera ci aveva promesso di invitarci in concorso, sarebbe stato bello sottoporre l’ultima opera di Caligari a una giuria internazionale». È vero, risponde il direttore della Mostra, «avevo pensato alla competizione, ma è successo prima della morte di Caligari. Poi, rimanere della stessa idea mi è parso indelicato, quasi una scelta ricattatoria, mentre un’eventuale sconfitta sarebbe stata difficile da digerire».
AMICIZIA
Tocca dunque a Mastandrea e agli sceneggiatori Giordano Meacci e Francesca Serafini illustrare il senso di Non essere cattivo. «Claudio voleva raccontare un’amicizia grandissima in un contesto sociale che la corrompe e la stritola», spiega l’attore-produttore. «L’arrivo dell’ecstasy in periferia sancisce la fine dell’innocenza dei protagonisti che sarebbero piaciuti a Pasolini. Caligari racconta la storia”dal basso”, senza salire in cattedra né giudicare».
Colpiscono al cuore gli attori, tutti sui 30, tutti motivatissimi e convinti di aver partecipato a un progetto destinato a lasciare il segno. Luca Marinelli e Alessandro Borghi, nel film legati da un rapporto fraterno, amici lo sono diventati davvero. «Caligari ci ha insegnato a non aver paura», racconta Marinelli. E Borghi: «All’inizio mi sentivo affascinato e impaurito, poi mi sono lasciato travolgere dalle emozioni».
Aggiunge Silvia D’Amico: «Il regista ci ha scelti guardandoci negli occhi, non voleva soltanto degli attori ma persone coscienti del mondo che avrebbero rappresentato». Da quel mondo, la periferia, viene Roberta Mattei: «Chi, come me, è cresciuto con i testi di Pasolini e le canzoni di De André, considera un atto rivoluzionario l’attenzione dimostrata da Caligari per gli esclusi», dice.
E un’altra polemica, al Lido, sfiora Viva la sposa, il film di Ascanio Celestini ambientato a Roma, al Quadraro, e passato alle Giornate degli Autori (sarà nelle sale l’8 ottobre). Nei giorni scorsi il sindacato di polizia Coisp aveva attaccato (senza vederlo) il film che, nella parte finale, evoca i casi di Giuseppe Uva e Stefano Cucchi, uccisi secondo i familiari dalle percosse degli agenti.
Viva la sposa, a sentire il Coisp, getta discredito sulla polizia, ma Celestini ribatte: «Non ho girato un film contro le forze dell’ordine. Se avessi avuto questa intenzione, avrei utilizzato il loro punto di vista. Non sappiamo con esattezza cosa sia successo a Cucchi o Uva. E io non racconto la violenza, bensì il fatalismo di qualcuno che sta a guardare quello che accade senza sforzarsi di trovare un’interpretazione».