il Messaggero, 8 settembre 2015
L’età scritta nel sangue. Con un test si può capire se si è a rischio di ammalarsi di Alzheimer e, addirittura, quanto a lungo si vivrà. Sarà possibile capire come si sta invecchiando per curarsi in tempo. Ma questa scoperta potrebbe avere ripercussioni sulle pensioni e sulle assicurazioni
Per conoscere l’età di qualcuno il modo migliore non è chiedergli la data di nascita, bensì dare un’occhiata ai suoi esami del sangue: da lì si può capire se è a rischio di ammalarsi di Alzheimer e, addirittura, quanto a lungo vivrà. Lo sostengono alcuni ricercatori del King’s College di Londra, secondo cui negli ultrasessantacinquenni alcuni geni devono funzionare bene affinché si possa prevedere un “invecchiamento sano”.
E se l’età biologica fosse più alta del previsto e ci fossero seri rischi di sviluppare una demenza senile, sarebbe possibile avviare immediatamente delle terapie che, senza essere ancora risolutive, stanno comunque dando risultati incoraggianti in fase sperimentale. Nel caso in cui l’età biologica fosse invece più bassa di quella anagrafica, la persona in questione potrebbe rimanere tra coloro che possono donare organi in piena sicurezza anche dopo i 70 anni, dando un prezioso contributo alla società.
Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Genome Biology, non fornisce indicazioni su come rallentare il processo di invecchiamento, ma sottolinea come i risultati raggiunti dagli scienziati dell’istituzione londinese e il test messo a punto da loro potrebbero avere applicazioni rivoluzionarie sulla sanità pubblica, ma anche sulle pensioni e sulle assicurazioni. «C’è una “firma” dell’invecchiamento sano comune a tutti i nostri tessuti e che risulta essere indicativa per una serie di cose, tra cui la longevità e il declino cognitivo», ha spiegato il professore Jamie Timmons del King’s College alla BBC, aggiungendo: «Sembra che dai 40 anni in su si possa usarlo per fare luce su come un individuo sta invecchiando».
IL CONFRONTO
Questa “firma dell’invecchiamento” viene rilevata nel corpo umano mettendo a confronto il comportamento di 150 geni. Funziona per il sangue, i tessuti, la pelle e alcune parti del cervello. Il test è stato elaborato mettendo inizialmente a confronto 54mila marcatori dell’attività genetica di alcuni 25enni e 65enni in salute ma prevalentemente sedentari, dediti a meno di due ore e mezzo di attività aerobica a settimana. Il numero è stato poi ridotto a 150 dai ricercatori, che invitano a considerare “salute” e “età” come due entità separate. Stare tutto il giorno seduti può essere poco sano, ma non influisce necessariamente sul modo in cui il corpo invecchia.
I CONTROLLI
Il lato più inquietante della ricerca è quello legato alla sua capacità di valutare la durata di vita di una persona, come emerso da una ricerca condotta in un arco di 20 anni su un gruppo di uomini svedesi di 70 anni. Tra di loro gli scienziati hanno stabilito chi stesse invecchiando bene e chi, invece, rischiava di morire negli anni successivi. «Era possibile individuare le persone che non avevano quasi rischi di morire e quelli che invece avevano un 45 per cento di possibilità», ha proseguito il professor Timmons, secondo cui le applicazioni di questo “profiling” potrebbero estendersi anche in campo oncologico: chi sta invecchiando rapidamente potrebbe essere incoraggiato a fare i controlli prima degli altri.
GLI SVILUPPI
Una delle applicazioni più interessanti è tuttavia quella sull’Alzheimer, poiché il test sui geni, insieme ad altre analisi, consentirebbe di identificare chi rischia di sviluppare la malattia degenerativa e sottoporlo fin da subito a trattamenti preventivi. Secondo il direttore della ricerca alla Alzheimer’s Society, Doug Brown, «con ulteriori sviluppi questa ricerca potrebbe aiutare i nostri tentativi di trovare nuove cure per questo problema, individuando le persone che potrebbero sviluppare l’Alzheimer e farle partecipare ai nostri test clinici».
Le implicazioni di una scoperta tanto importante non sono però tutte semplici da gestire visto che aggiungere l’età anagrafica ai dati personali potrebbe incidere sulle pensioni, sulle assicurazioni o magari anche sulle richieste di mutui.
«Solleva un numero di questioni, non c’è dubbio, e un dibattito strenuo, ma visto che siamo già giudicati in base alla nostra età, tanto vale farlo in una maniera più intelligente», si è però difeso Timmons osservando: «Uno potrebbe decidere si non versare troppo in pensione e di godersi la vita così com’è ora».