Corriere della Sera, 19 novembre 2009
Giuseppe Verdi, favorevole all’unità solo dopo il 1848
Fra le polemiche del teatrino politico ci viene riproposto il mutamento dell’inno nazionale: non più il povero inno di Mameli ma il «Va’ pensiero» del grande Giuseppe Verdi. Il coro del Nabucco, di cui Verdi musicò i versi nel 1842, è forse la più bella melodia verdiana ed è un coro patriottico vissuto, all’epoca, in chiave antiaustriaca e unitaria. Del resto Verdi era un vero patriota e nel”48 da Parigi si precipitò a Milano sognando «l’Italia libera, una, repubblicana». Forse vale la pena di ricordare queste cose a chi non le sa. Verdi era per l’Italia unita tutta intera con Roma capitale. Era un mazziniano che dopo il”48 approdò alle posizioni della Società nazionale e cioè all’idea di fare l’Italia persino con la monarchia e con i Savoia. Era così fortemente unitario che, nel marzo 1861, scrisse a un amico napoletano, Cesare De Sanctis, per mettere a tacere i particolarismi e i separatismi che venivano a galla nel Mezzogiorno proprio nel momento cruciale della proclamazione dell’Unità: «Per Dio, non fate ragazzate, state quieti, tenete a freno i matti, abbiate pazienza. (...) Pensate che se non si dovesse effettuare la grande idea dell’Unità d’Italia, la colpa sarebbe tutta vostra, ché delle altre parti d’Italia non v’è da dubitare. Se per idee miserabili di campanile l’Italia dovesse essere divisa in due (che Dio non lo voglia) sarebbe sempre in balia e sotto protezione delle altre grandi potenze; quindi povera, debole, senza libertà e semibarbara. L’Unità soltanto può renderla grande, potente e rispettata». Berlusconi dovrebbe fare propria questa lettera e leggerla ai sudisti e ai nordisti per porsi al centro di ogni campanilismo e festeggiare con Verdi il 150° dell’Unità d’Italia.
Zeffiro Ciuffoletti
Università di Firenze
Caro Ciuffoletti,
In tempi di polemiche antirisorgimentali e di nostalgie preunitarie, lei ha diritto a più spazio di quanto questa pagina possa concederne abitualmente ai suoi lettori. Pubblico volentieri la sua lettera con qualche osservazione complementare.
Verdi fu certamente risorgimentale e recitò perfettamente la parte del grande aedo popolare di cui il Paese aveva bisogno in quegli anni. Ma non sarebbe giusto dimenticare che le sue convinzioni, come quelle di tutti i maggiori italiani dell’epoca, furono dettate dalle circostanze e dalle occasioni. Volevano cambiare l’Italia, ma erano disposti a farlo in modi diversi. Come ho già ricordato, lo storico Giorgio Rumi mi disse un giorno che il Nabucco è dedicato a Maria Adelaide d’Asburgo, allora promessa sposa del principe Vittorio Emanuele di Savoia, e che «anche la trama è allusiva a una funzione nazionale degli Asburgo». Erano gli anni in cui Carlo Cattaneo pensava che il Regno Lombardo Veneto potesse avere nell’Impero asburgico un ruolo paragonabile a quello dell’Ungheria e in cui Bettino Ricasoli pensava soprattutto al suo Granducato di Toscana. Il sentimento unitario assume nuove dimensioni nel 1848 quando l’intera penisola scopre da un giorno all’altro possibilità e prospettive che sarebbero state un anno prima difficilmente immaginabili. Verdi se ne accorse e dette prova, nella lettera da lei citata, di avere un forte senso politico.
Quanto al ruolo del presidente del Consiglio nelle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità, mi basterebbe che ammettesse pubblicamente di non avere mai letto il libro di Angela Pellicciari (Risorgimento da riscrivere. Liberali e massoni contro la Chiesa) di cui ha fatto le lodi qualche settimana fa.