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 2015  settembre 04 Venerdì calendario

«Ho paura dell’odio». Parla Kerry Kennedy, la settima degli undici figli di Ethel e Robert. Perse il padre nel 1968, la madre era «decisamente diversa dalle altre, non ricordo mi abbia mai chiesto se a scuola avevo preso un "A", piuttosto mi interrogava se avessi fatto qualche cosa di utile per la comunità, per i diritti umani...e il condizionamento per me era così forte che, persino quando mi allacciavo le scarpe, cercavo di non fare torti a un piede, rispetto all’altro. Così se infilavo la sinistra, allacciavo le stringhe prima a destra»

I Kennedy, la sua famiglia, che cosa ricorda? «Papà Robert e mamma Ethel non separavano mai il lavoro dalla vita quotidiana, dalla famiglia...così in casa c’erano sempre attivisti per i diritti umani, un andare e venire di persone impegnate nelle battaglie di mio padre». Che madre era, Ethel? «Decisamente diversa dalle altre, non ricordo mi abbia mai chiesto se a scuola avevo preso un «A» (un bel voto, ndr. ), piuttosto mi interrogava se avessi fatto qualche cosa di utile per la comunità, per i diritti umani...e il condizionamento per me era così forte che, persino quando mi allacciavo le scarpe, cercavo di non fare torti a un piede, rispetto all’altro. Così se infilavo la sinistra, allacciavo le stringhe prima a destra. Sarei stata equanime, come tutti si aspettavano». E il primo ricordo di suo padre? «Risale a quando era Attorney general, Procuratore generale, in piena battaglia per i diritti civili americani».
Kerry Kennedy – capelli biondi, abito nero con grafismi blu e infradito – è la settima degli undici figli di Robert ed Ethel Kennedy. Settima di undici figli rimasti senza un padre dopo l’assassinio, nel giugno 1968, del senatore Robert, fratello di John Fitzgerald Kennedy (il presidente degli Stati Uniti ucciso a Dallas nel 1963). Robert, invece, fu colpito a morte all’Hotel Ambassador a Los Angeles: aveva vinto le Primarie in California e tutto, in quel 1968, faceva presagire che sarebbe arrivato alla Casa Bianca. Aveva 42 anni.
Papà Robert e zio John
Quando parla della famiglia – di papà Robert e di zio John – in quei suoi occhi che sembrano guardarti dentro l’anima, come quelli di tutti i Kennedy, scorre il film della memoria. Una memoria che è collettiva, storica. Ma per lei resta, come è naturale, un ricordo molto personale. Una responsabilità chiamarsi Kennedy? «È un onore, e lo faccio con gioia con il Robert F. Kennedy Human Rights Center che si batte per la tutela dei diritti umani, con l’aiuto di professionisti come Frank La Rue che guida il braccio europeo del Robert F. Kennedy Human Rights a Firenze, e dal 2008 monitora per conto dell’Onu sul rispetto dei diritti umani». Al tempo di suo padre, il dibattito riguardava i diritti della popolazione di colore. Oggi, 2015, che cosa teme di più? «L’odio. Quello dei Talebani in Afghanistan, di Boko Haram in Nigeria, dei Janjaweed in Sud Sudan. E l’emergere, specie in Nord Europa, dei partiti neo nazisti. Per questo mi sta a cuore il futuro del giornalismo investigativo, essenziale per la tutela dei diritti umani. Poi bisogna insegnare ai ragazzi a prendersi delle responsabilità personali». Già, è il progetto «Speak truth to power». «Un libro e il sogno di educare al rispetto dei diritti umani, alla libertà di espressione», spiega Kennedy alla quale il principe Alberto di Monaco ha teso la mano per aiutarla a organizzare il primo «I Defend Gala»: nuova iniziativa per sostenere i progetti di sostenibilità sociale della Fondazione intitolata a Robert Kennedy.
La Camelot dei Kennedy che incontra quella dei Grimaldi. Il figlio di Grace e del principe Ranieri a fianco delle battaglie della figlia di Robert Kennedy. Senza contare che tra i principi di Monaco e la Casa Bianca di John F. Kennedy, tra il piccolo regno e la superpotenza grazie proprio a una Princesse nata americana, il legame fu intenso: Grace e Ranieri pranzarono alla Casa Bianca nel 1961. «Alberto è per metà americano e si è commosso quando, alla serata I Defend, sono stati battuti all’asta da Artcurial, foto storiche di Harry Benson sulle battaglie di papà».
Da Camelot al Rocher
All’incanto, nell’iconico Riva Tunnel sul porto di Monaco, oltre alle foto di Benson (quella del 1966 di Robert con Kerry bambina è stata aggiudicata a 16 mila euro), è andata anche un’opera di Michelangelo Pistoletto oltre al primo esemplare della nuova Fiat 500 Cabriolet (donato dalla casa automobilistica e aggiudicato a 55 mila euro), customizzato dall’artista Stefano Conticelli ispiratosi al discorso di Martin Luther King, «I have a dream». «Vorrei che questo appuntamento, con l’aiuto del principe, la collaborazione di Lia Riva e dello chef Gualtiero Marchesi, si rinnovasse ogni anno», dice. A proposito di Monaco: meglio un principe o un presidente come negli Usa? In fondo gli Stati Uniti hanno fondato la loro storia sulla battaglia per l’indipendenza dalla corona inglese. «C’è qualcosa che accomuna principi e presidenti: un grande potere di moral suasion. Sono catalizzatori d’attenzione, suscitano emozioni, creano un seguito. Ma devono dimostrare di averlo meritato e purtroppo, vedo in giro pochi veri leader». Il sole della Côte si riflette sulla croce che porta al collo. Cattolica, come tutti i Kennedy, ha scritto anche il libro «Being Catholic now» e di papa Francesco dice: «É straordinario, ha chiesto perdono agli indigeni dell’America Latina per i crimini della Chiesa al tempo dei conquistadores. Un vero leader».
Hillary Clinton sarà presidente? «É la più qualificata. E finalmente le mie figlie (Cara, Mariah e Michaela, avute dalle nozze con Andrew Cuomo, da cui ha divorziato, ndr. ) un giorno potranno sognare di diventare anche loro presidenti!». Obama? «Ha tagliato il deficit, e dire che molti già immaginavano per gli Usa una nuova Grande depressione. In più, oggi gli americani hanno un sistema di Welfare: un uomo di visione». Eppure c’è stata un po’ di disillusione. «In politica la scelta non è mai tra una persona reale e il candidato ideale, bensì tra il proprio candidato e quello dell’opposizione». Una lezione di realismo, da un’idealista. «Quanto a Hillary, dovrà vedersela con Jeb Bush e pure Marco Rubio».
Hillary e le dynasty
I Clinton e i Bush, due dynasty: ancora l’aristocrazia del potere. Negli Usa, culla della democrazia. Non è strano? «Ma sono decine i candidati in corsa. Certo le dinastie sono un segno di debolezza del sistema, che si spiega però con il fatto che il meccanismo politico Usa è complesso. Complessità che ha fatto sì che figure come Donald Trump non siano ancora riuscite a emergere». E gli occhi di Kerry brillano sotto il sole: la politica sin qui non è entrata nel sangue. Sin qui.