Corriere della Sera, 4 settembre 2015
Cordone di uniformi, vetro blindato e percorsi alternativi. Ignazio Marino era e resta sotto tutela. La sua presenza muta e assordante crea in piazza attese e bagarre surreali come la sola idea di presentarsi in pubblico, tra la sua gente, dopo polemiche e veleni, senza proferire parola. Dicono che per mezz’ora, prima di farsi trasportare al Don Bosco, abbia rampognato i suoi come un papà corrucciato. Ed è possibile. Ma è anche, questa, l’immagine che un partito deciso a evitare le elezioni romane durante il Giubileo tende disperatamente ad accreditare: un sindaco alieno ma decisionista, stralunato ma tosto, tontolone ma onestissimo, tutto sommato ancora accettabile e accettato dai cittadini
Gli lanciano fiori, «I-gna-zio! Ig-na-zio!». Gli tirano monetine: «Buf-fo-ne! Buf-fo-ne!». Lui mormora un enigmatico «bella accoglienza...» che, come al solito, non si capisce se stia parlando dalla luna o dalla terra, mentre entra sballottato tra i carabinieri in quella piazza Don Bosco espugnata dai Casamonica il 20 agosto e che adesso dovrebbe essere la «sua» piazza, la piazza del riscatto in questo pomeriggio fortemente voluto dal Pd romano con l’azzardo fantasioso di Matteo Orfini. Ma anche oggi, anche qui, anche col jetlag del volo dall’America ad attutirgli le difese e il fardello di diciannove giorni di ferie da farsi perdonare, Marino era e resta sotto tutela: sempre con un cordone di uniformi, un vetro blindato, un prefetto protettore o una coltre di equivoci tra sé e i romani.
«Non è un sindaco di pancia, che pretendete?», sbuffano i suoi. «Se non era un marziano, ora stava in galera con quelli di Mafia Capitale», sussurrano. Vero. Ma da Marte bisognerebbe pur scendere, prima o poi.
Invece tutto è mediato, asettico come in una sala operatoria in questi due anni che lui giura «non sono stati certo molti per sconfiggere il malaffare» ma che molti romani avrebbe giudicato sufficienti per riempire almeno un po’ di buche e spazzare un po’ di strade.
Per garantirgli un rientro in ufficio soft, lontano da cronisti e telecamere, gli fanno fare all’inverso il «percorso DiCaprio», terrazza Caffarelli, musei Capitolini, studio: lo stesso che il mitico Leo fece nel 2006 per uscire dal Campidoglio eludendo la ressa. Poco prima, a Fiumicino, gli avevano evitato un atterraggio troppo brusco nella realtà andando a prenderlo in macchina sotto il volo Alitalia di ritorno da New York.
Ora, in piazza Don Bosco, gli evitano contatti troppo diretti con la folla del suo stesso partito, i cittadini della sua stessa città. «Io non sapevo niente del funerale dei Casamonica, non ho colpe. E non ho paura di contestazioni, ci metto la faccia», prova a obiettare lui. Macché: forse è colpa sua che non convince nessuno, forse ha consiglieri troppo ansiosi attorno. Fatto sta che lo blindano come un San Giuseppe sotto una teca di vetro, tra spintoni, mugugni, piccole risse di cameramen e servizio d’ordine. La sua presenza muta e assordante crea in piazza attese e bagarre surreali come la sola idea di presentarsi in pubblico, tra la sua gente, dopo polemiche e veleni, senza proferire parola: la mischia si sposta avanti e indietro travolgendo militanti giovani e anziani, Bindi e Fassino, Fassina e Morassut, transfughi e ortodossi, e persino vecchie glorie del Pci, come Cossutta, il «compagno Armando» che, in carrozzella, protetto da un nipote coraggioso, assiste basito al teatrino.
Dicono che Marino sia diverso da come lo raccontiamo. E lo raccontano mentre rampogna i suoi assessori alla prima giunta dopo le ferie infinite: «Siamo al punto zero, il governo ha riconosciuto che con la mafia non c’entriamo, da adesso niente alibi! Soprattutto, basta parole in libertà, abbiamo addosso i riflettori, facciamo squadra»: giurano che a queste parole guardasse in particolare l’assessore Esposito, ultima voce nello zibaldone dell’assurdo per le sue infelici esternazioni su Roma, la Roma, la giovinezza ultrà e il tifo bianconero con risse annesse («sii più prudente»). Dicono che per mezz’ora, prima di farsi trasportare al Don Bosco, abbia rampognato i suoi come un papà corrucciato.
Ed è possibile. Ma è anche, questa, l’immagine che un partito deciso a evitare le elezioni romane durante il Giubileo tende disperatamente ad accreditare: un sindaco alieno ma decisionista, stralunato ma tosto, tontolone ma onestissimo, tutto sommato ancora accettabile e accettato dai cittadini. Le cose non stanno proprio così. C’è un pezzo di partito, non necessariamente legato alla mafia, che lo chiama «il cavallo di Caligola», ultima prova di (pre)potenza della vecchia nomenclatura: facciamo eleggere anche un signor nessuno, volendo. C’è un altro pezzo di partito che teme la sua trasformazione nel «Civati romano», uno che si rastrella quel 5 per cento «possibile» e sufficiente a farti perdere le elezioni future. E c’è, qui, in piazza Don Bosco, un pezzo di platea, «non truppe cammellate, lo scriva», che però risponde a queste logiche e lo guarda come una sciagura connessa ai tempi, qualcosa di simile al buco nell’ozono: «Bono ma incapace, l’ultimo che ha governato Roma è stato Petroselli», sentenzia senza appello un decano del quartiere, Mario Monosilio, 80 anni, tessera comunista a 14, famiglia partigiana: proprio il «compagno-tipo» che Marino cerca di accalappiare con la dichiarazione diffusa dai suoi: «Roma ha cacciato i fascisti, caccerà anche la mafia». Resta la ressa all’uscita. E l’ultimo insulto di una ragazza antagonista: «Sei un pagliaccio senza palle, come quasi tutti gli uomini del resto». E in quel del resto c’è il relativismo che tutti ci inghiotte mentre cala la sera sul regno dei Casamonica.