La Stampa, 1 settembre 2015
C’era una volta il fairplay finanziario, quello voluto da Platini e poi ci sono le spese pazze, quelle volute dei club. Perché alla fine il calciomercato è uno dei tanti reality dei giorni nostri. E se il pubblico si bea delle sue follie e delle sue facezie, perché anche i club non dovrebbero stare al gioco? I cantori non mancano, su giornali e ormai soprattutto tv, dunque il ritorno è garantito a livelli sempre più alti
C’era una volta il fairplay finanziario. Da un’idea di Michel Platini, allora fresco presidente Uefa, per calmierare il calciomercato internazionale attraverso il controllo di un ragionevole equilibrio tra costi e ricavi. Per un po’ ha funzionato. Poi si sa come vanno le cose tra uomini di mondo, la tolleranza zero (che in questo caso già zero non era) diventa uno, poi due, poi tre.
E nel giro di qualche tempo amici come prima. Per esempio Manchester City e Paris Saint-Germain erano sì stati sanzionati un paio di stagioni fa per aver sforato i parametri. Ma una volta pagata la multa e ridotta temporaneamente la rosa, hanno ricominciato peggio di prima perché anche agli sceicchi, come al cuor, non si comanda. E se quest’estate i parigini si sono accontentati di Di Maria a 65 milioni, gli inglesi invece hanno fatto bingo: 68 per Sterling, 45 per Otamendi, 75 per De Bruyne. Con un caro e rispettoso saluto alle norme e a monsieur Platini che presto di ben altre cifre – e ruberie assortite – si dovrà occupare.
Mica finita, in Premier League. Perché Otamendi, con tutto il rispetto uno stopper, lo voleva anche Mourinho al Chelsea che a quel punto ne ha offerti 50 per un pari ruolo, tale Stones. Ma l’Everton non solo non gliel’ha portato a braccia, debitamente infiocchettato: gliel’ha semplicemente rifiutato. O vogliamo parlare dello United e del suo nuovo profeta Van Gaal? In un anno ha speso non meno di 250 milioni di euro con esiti assai modesti. Adesso 60 più 20 di bonus li ha offerti al Monaco per un attaccante, Martial, che i beneinformati dicono promettente ma la cui notorietà non ha ancora varcato i confini del principato.
Altro che ricchi scemi, come Giulio Onesti, storico presidente del Coni aveva ribattezzato i presidenti del calcio Anni 50. Questi sono matti da legare che hanno ri-fatto impazzire la maionese del calciomercato dopo qualche stagione se non di saggezza, questa mai, almeno di ravvedimento. Nelle ultime ore il Sunderland ha speso 14 milioni per Borini. In compenso il City ha (s)venduto Dzeko alla Roma grosso modo per la stessa cifra, a conferma che del rapporto qualità/prezzo si è persa del tutto la nozione. Di sicuro gli sceicchi del pallone guardano poco la tv. Se avessero visto domenica sera il taconazo volante di Meggiorini dalla linea di fondo, a quest’ora avrebbero comprato lui, il Chievo, e l’intero quartiere veronese in cui prospera la società, al momento prima in classifica.
Non in queste proporzioni, ma anche da noi in pochi hanno badato a spese. Per esempio le milanesi, forse per via che erano a loro volta nel mirino del fu-fairplay finanziario. Quaranta milioni per Dybala non sono pochi. Ma tutta Europa ci aveva messo gli occhi addosso, mentre Kondogbia pur sulla grande ribalta di un quarto di Coppa Campioni era passato discretamente inosservato: eppure Thohir, o chi per lui, ne ha sborsati 35 che pochi non sono. Travolta da improvviso benessere, l’Inter ha smesso di comprare ieri sera alle 11 giusto perché è risuonato il fatidico rien ne va plus. Ma non è stata certo l’unica società nostrana colta da una forma di bulimia compulsiva.
Perché alla fine il calciomercato è uno dei tanti reality dei giorni nostri. E se il pubblico si bea delle sue follie e delle sue facezie, perché anche i club non dovrebbero stare al gioco? I cantori non mancano, su giornali e ormai soprattutto tv, dunque il ritorno è garantito a livelli sempre più alti. Le società li alimentano di continuo, di modo che i tifosi sappiano che cosa erano disposte a fare pur di accontentarli. Gli agenti, i procuratori, i mediatori assortiti più giocatori muovono, e più valutazioni gonfiano attraverso il circo mediatico, più provvigioni lucrano. Il 10 per cento, a star leggeri, dei 7 milioni all’anno che Muntari percepirà in Arabia Saudita per due anni, fanno un milione e 400 mila euro. Se a raccontare il Muntari delle ultime stagioni fossero stati soltanto i critici calcistici, e non anche gli aedi del mercato, quale sarebbe stato l’ingaggio e, di conseguenza, la percentuale di chi lo rappresenta? È soltanto un esempio. Così come lo è quello di Baselli, che guadagnerà sì e no un decimo di Muntari. E che mentre il ghanese faceva danni sia nei club che in nazionale, cresceva piano piano nell’Atalanta e pareva destinato ora a questo ora a quello dei grandi club a strisce. Come gli dona invece quella maglia a tinta unita.