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 2015  settembre 01 Martedì calendario

La forza degli outsider. Ora sulle scene c’è Trump, ma non dimentichiamo quel miliardario texano, Ross Perot, già presidente della General Motors, che dall’alto dei suoi centosessanta centimetri riuscì a rubare voti a Bush senior permettendo a Clinton di entrare alla Casa Bianca nel 1992; Sarah Palin, la Diana Cacciatrice dell’Alaska, la “Pitbull col rossetto” come lei amava definirsi, che costrinse, nel 2008 il candidato John McCain ad arruolarla per la vice presidenza; E poi c’è Ronnie che nel 1976 era stato licenziato come un attoruncolo venuto dalla California, dagli studios di Hollywood e dai microfoni delle radio e che nel 1980 nel 1980, sparecchiò le primarie e spodestò Jimmy Carter. Come diceva Barnum: «Nessuno è mai andato fallito, puntando sulla credulità del pubblico»

Forse è un po’ cinico dire che «nessun dovrebbe mai votare per uno così pazzo da voler fare il Presidente degli Stati Uniti», secondo una battuta attribuita anche a Mark Twain, ma è un fatto accertato che da due secoli abbondanti schiere di documentabili svitati hanno tentato di conquistare la Casa Bianca.
Anche ora, mentre un’America insieme sbigottita ed entusiasta segue la resistibile ascesa del “Donald”, di un Trump che da caricatura per la satira tv è diventato il leader nei sondaggi repubblicani, sono iscritti ufficialmente alle liste elettorali federali per il voto del novembre 2016 almeno 470 candidati. Tra i quali spicca Pogo Allen Reese, un ex stripper afroamericano che diffonde volantini di sé vestito soltanto con un cappello da cowboy e un perizoma leopardato. Il suo slogan: «Un uomo dovrebbe essere giudicato dal valore del suo carattere e non dal colore delle sue mutande».
Pogo è entrato di diritto in un’affollatissima galleria di personaggi, uomini e donne, tentati dal colpo alla roulette del Casinò elettorale. Alcuni sono figure irrilevanti, curiosità politiche, come Earl Browder, leader del Communist Party Usa negli Anni ‘30. Sfidò Roosevelt nel 1936, ma fu molto handicappato dalla sfortunata circostanza di trovarsi in carcere. Altri perdenti furono molto più dignitosi, come la prima donna autocandidata alla Casa Bianca, Victoria Woodhull, giornalista, suffragetta, agente di Borsa e attivista di ogni nobile causa sociale, oltre che del diritto “al libero amore”. Una causa che nell’anno della sua campagna elettorale, 1872, non trovò grandi consensi. O Angela Davis, la profetessa del nuovo Partito Comunista americano, tenacemente partecipe a varie presidenziali sia pure con poche migliaia di voti.
Ma nella affollata discarica delle vanità, la storia elettorale americana ha portato sulla scena molti outsider che hanno dirottato il corso della politica. Tagliato in parte nello stesso legno di Donald Trump, il miliardario texano Ross Perot, già presidente della General Motors, riuscì, dall’altro dei suoi petulanti 160 centimetri di statura e dei suoi forzieri, a ottenere la candidatura del Partito Indipendente e a portare via abbastanza voti conservatori, anti-tasse e populista a George H. Bush nel 1992. Permise, rubando voti ai repubblicani, la vittoria del democratico Bill Clinton che senza Perot avrebbe perso.
La dinamica delle “primarie” permette e spesso favorisce l’emersione di personaggi che godono di una seguito ridotto, ma compatto. Con percentuali di affluenza che raramente superano il 10 per cento, manipoli di attivisti che votano in blocco alle primarie possono produrre risultati che sgambettano i leader designati dai “mammasantissima” dell’establishment. Sarah Palin, la Diana Cacciatrice dell’Alaska, la “Pitbull col rossetto” come lei amava definirsi, costrinse, nel 2008 il candidato John McCain ad arruolarla per la vice presidenza, forte dei successi nelle primarie, pur sapendo che sarebbe stata una zavorra nelle elezioni generali.
L’estremismo è la malattia infantile di tutte le primarie che ogni quattro anni devono subire l’impatto dei populisti e dei radicali, come fu per i democratici con Howard Dean che si autodistrusse dopo una prima sconfitta con un discorso sconclusionato e leggermente demenziale. L’assioma di tutte le Presidenziali americane resta infatti, da decenni, immutabile: si parte correndo dalle ali, ma si vince occupando per primi il centro e portando via voti all’altro partito. Ma guai a chi resta, come Barry Goldwater nel 1964 demolito da Lyndon Johnson, intrappolato nel radicalismo di partenza. Fu il caso del popolarissimo governatore dell’Alabama George Wallace, democratico del Sud, dunque dichiaratamente segregazionista come erano i democratici in quegli anni negli Stati della ex Confederazione, che il 15 novembre del 1963 annunciò la sfida al presidente Kennedy. Per sua tragica sfortuna, una settimana dopo il suo attacco, Kennedy fu assassinato a Dallas e la campagna anti-Jfk di Wallace assunse accenti sinistri, condannandolo alla marginalità, fino all’attentato contro di lui che, nel 1972, lo paralizzò dalla vita in giù. Ma la scoperta che negli Stati, e nell’elettorato del Sud degli Usa, bolliva un profondo, e ricco giacimento di rancori razzisti e revascisti, non sarebbe sfuggita a futuri candidati alla Casa Bianca, come quel Richard Nixon, che proprio sulla “Strategia del Sud”, strappato ai democratici divenuti troppo democratici, avrebbe costruito la propria base.
Dunque, anche le avventure dei narcisisti, degli ultrà radicali, dei semplici matti che lanciano il proprio cappello nel ring della presidenziali tradiscono granelli di valutazione che poi i candidati “mainstream”, quelli più moderati, riciclano. L’odio profondo per la burocrazia politica, per la “Casta” nello slang politico italiano, per i finanzieri, per la invadente magistratura, per il sempre oscuro, ma onnipotente “complotto internazionalista” che le ali estreme agitano e che un altro famoso battitore libero, Lyndon LaRouche, ha usato per decenni contro la “cricca” dei Rockefeller, dei Kissinger, della Cia, di Wall Street, ricompare in Donald Trump, come fu ben presente nella cavalcata di Ronald Reagan.
Proprio “Ronnie” nella sua prima avventura nel 1976 era stato licenziato come un attoruncolo venuto dalla California, dagli studios di Hollywood e dai microfoni delle radio dalle quale, prima di parlare di politica, inventava radiocronache di partite di baseball basate solo sui flash di agenzia. Il Partito Repubblicano non lo prese sul serio, lo respinse nel 1976, fino a quando, nel 1980, sparecchiò le primarie e spodestò Jimmy Carter. Certamente Ronald Reagan non era il leggendario Homer Tomlinson, un ex pubblicitario che invano partecipò a cinque elezioni fino alla morte nel 1968 e non avendone mai vinta una, si era consolato visitando 101 nazioni e facendosi incoronare re dagli amici, con tanto di corona, scettro ed ermellino.
Ma la storia della democrazia americana ammonisce a non sottovalutare mai coloro che brutalmente e sommariamente si tende a definire “matti”, soprattutto nei momenti di incertezza, di confusione, di sfiducia nella politica politicante. La roulette bianca attira molti e nessuno conosce in anticipo il numero che uscirà. Avvertiva Pt Barnum, l’uomo del Circo e del Museo dell’Incredibile: «Nessuno è mai andato fallito, puntando sulla credulità del pubblico».