Un libro in gocce, 28 agosto 2015
Libera Chiesa in libero Stato
«Garibaldi voleva andare a Roma.
“Anche Cavour voleva andare a Roma. A Roma e a Venezia. Per risolvere il problema di Venezia si sarebbe dovuta far la guerra all’Austria, ma per Roma si poteva forse procedere per via diplomatica. Il potere temporale del papa non consisteva ormai che nel Lazio e, pur ridotto di dimensioni, non sarebbe durato un solo giorno senza la protezione francese. Napoleone III s’era abbastanza stancato di tenere truppe a Roma e a un certo punto, durante il tiraemolla intorno alle Marche, aveva addirittura sperato che il papa scappasse, ipotesi che aveva preso in considerazione anche Cavour (in quel caso era pronto per il pontefice il dono della Sardegna).
C’era un medico romano, il dottor Diomede Pantaleoni, che per parecchio tempo aveva mandato a Cavour notizie e osservazioni dalla città. Pantaleoni aveva una storia curiosa, perché aveva fatto il cospiratore e aveva partecipato come deputato alla repubblica romana. Dunque, avrebbe dovuto essere cacciato via col ritorno di Pio IX. E invece i cardinali se l’eran tenuto ben stretto perché era un gran medico o, almeno, tale lo reputavano. Aveva continuato a frequentare un ambiente importante, a essere introdotto”.
Con che scusa Cavour poteva stabilire un contatto con i romani?
“Durante le scaramucce del ’60 i piemontesi avevano fatto prigionieri dei gendarmi pontifici e in ottobre Cavour aveva pensato di scambiarli con qualche detenuto politico romagnolo o marchigiano o umbro. Poiché si trattava di mandare un messo a Roma, tanto valeva tastare il terreno su tutto il problema. Scrisse a Pantaleoni che avrebbe fatto partire qualcuno a beneficio di quelli che gemono ancora nel forte di Paliano». “La stessa persona sarebbe incaricata d’indagare se il Sommo Pontefice comincia a persuadersi della necessità di venire con noi ad accordi”. Aggiunse che proprio a questo aveva voluto alludere col suo discorso dell’11 ottobre, quello su Roma capitale. Pantaleoni rispose che conveniva fare proposte larghissime in modo che il pontefice, respingendole, “smaschererebbe a un tratto l’ambizione e l’avarizia della prelatura politica”. Poi si mise in moto. Andò a parlare col padre Passaglia, un ex gesuita uscito dalla compagnia per le sue idee troppo liberali. Passaglia era un gran teologo e non si poteva pensare di fare un accordo con Roma prescindendo dalla teologia. Prepararono un memorandum e lo mandarono a Cavour. Questi lo corresse e lo rispedì”.
Contenuto?
“Si riconosceva al papa il titolo di sovrano nominale, senza alcun territorio da amministrare. Gli sarebbero stati assegnati beni, stabili e no, in Italia e all’estero, tali da bastare “alla necessità e al decoro” del pontefice. Su questi beni, nessuna tassa. La persona del papa e quelle dei suoi ministri sarebbero state inviolabili. Il clero avrebbe potuto esercitare il suo ministero senza restrizioni. Lo stato avrebbe rinunciato ad ogni forma di intromissione negli affari della chiesa: veniva abolito il placet e, con esso, ogni diritto inspiciendi e cavendi. Sempre nella forma canonica il pontefice poteva persino esercitare “il suo potere legislativo, tanto circa materie dogmatiche, quanto circa materie disciplinari” (qui Cavour specificò: “escludendo, ben inteso, ogni sanzione civile, ogni invocazione del braccio secolare"). La filosofia del memorandum era contenuta nel primo articolo delle “Condizioni da offrire”. “Si proclamerà il principio: Libera Chiesa in libero Stato"”.
Come reagirono in curia?
In curia, l’ala intransigente, che a nessun costo voleva trattare col nuovo stato italiano, era capeggiata dal cardinale Antonelli, segretario di Stato e gran seduttore di dame, e da monsignor de Mérode, belga, ministro delle Armi e capostipite dei grandi speculatori edilizi della Capitale. A capo dei morbidi stavano invece i cardinali Santucci, D’Andrea, Amat. Il padre Passaglia presentò il memorandum al cardinale Santucci, questi si entusiasmò, ne parlò al papa, a sua volta l’Antonelli disse che avrebbe esaminato la cosa, i due erano convinti di avercela fatta e scrivevano a Torino lettere entusiaste. Invece il 16 marzo Roma interruppe bruscamente i maneggi e i cardinali si rassegnarono persino a rinunciare al loro medico: Pantaleoni venne espulso. Cavour del resto non s’era per niente fatto trascinare dall’entusiasmo dei due, anzi fin dall’inizio aveva consigliato la massima prudenza. La pietra tombale su quel tentativo fu messa da Pio IX nel discorso pronunciato il 18 marzo, contro la civiltà moderna che “tende ad abbattere la Chiesa di Cristo”, la civiltà moderna “madre e propagatrice feconda d’infiniti errori, d’interminabili mali, di massime opposte a quelle della religione cattolica"”.
Cavour gli rispose?
“Sì, una settimana dopo. Sono i celebri discorsi del 25 e del 27 marzo. Ancora una volta, trovandosi al punto critico, era andato a cercar forza in parlamento, l’unico alleato che non lo aveva tradito mai. “Ho detto, o signori, e affermo ancora una volta che Roma, Roma sola deve essere la capitale d’Italia…”.
Sono in realtà due discorsi, pronunciati il 25 e il 27 ottobre 1860.
"Ho detto, o signori, e affermo ancora una volta che Roma, Roma sola deve essere la capitale d’Italia. Ma qui comincia la difficoltà del problema, qui comincia la difficoltà della risposta che debbo all’onorevole interpellante (era il deputato Audinot, Cavour s’era messo d’accordo con lui affinché presentasse l’interpellanza e gli desse così la possibilità di rispondere – ndr). Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni. Noi dobbiamo andarvi di concerto colla Francia; inoltre, senza che la riunione di questa città al resto d’Italia possa essere interpretata dalla gran massa dei cattolici d’Italia e fuori d’Italia come il segnale della servitù della Chiesa. Noi dobbiamo, cioè, andare a Roma, senza che per ciò l’indipendenza del pontefice venga a menomarsi. Noi dobbiamo andare a Roma, senza che l’autorità civile estenda il suo potere all’ordine spirituale”.
E poi, a conclusione del dibattito:
"Rimane a persuadere il pontefice che la Chiesa può essere indipendente, perdendo il potere temporale. Ma qui mi pare che, quando noi ci presentiamo al Sommo Pontefice, e gli diciamo: ’Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia d’indipendenza; rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche; di quella libertà voi avete cercato strapparne alcune porzioni per mezzo di concordati, con cui voi, Santo Padre, eravate costretto a concedere in compenso dei privilegi, anzi, peggio che privilegi, a concedere l’uso delle armi spirituali alle potenze temporali che vi accordavano un po’ di libertà; ebbene, quello che voi non avete mai potuto ottenere da quelle potenze, che si vantavano di essere i vostri alleati, e i vostri figli divoti, noi veniamo ad offrirvelo in tutta la sua pienezza; noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato’”.
La Camera approvò quasi all’unanimità.
E Napoleone? Era lui che teneva truppe a Roma.
“Naturalmente sarebbe stato assurdo tener fuori Napoleone III, che oltre tutto l’anno prima s’era espresso così energicamente contro il potere temporale. Ma quando il conte Vimercati – altro messo segreto di Cavour – fu di fronte a Bonaparte, si sentì proporre nuovi rimescolii territoriali. Napoleone voleva che l’Italia desse al Pontefice le Marche, l’Umbria e l’Abruzzo a titolo di ricompensa per l’occupazione delle Legazioni. Il papa avrebbe quindi nominato Vittorio Emanuele suo vicario in quelle terre. Nel Lazio e a Roma tutto sarebbe rimasto come prima, con la differenza che al presidio francese sarebbe subentrato un presidio italiano”.
La verità è che a Bonaparte l’unità d’Italia dava molto fastidio. Anche questi mi sembrano solo tentativi di smontare l’edificio appena costruito.
“Cavour in ogni caso rifiutò. Thouvenel preparò allora un documento in cinque punti, tra cui: francesi e italiani si sarebbero messi d’accordo direttamente e il contingente di Napoleone sarebbe stato ritirato; l’Italia si sarebbe impegnata ad impedire ogni attacco alla santa sede e avrebbe consentito l’arruolamento di un’armata pontificia di diecimila uomini; ci si sarebbe messi d’accordo col papa per il debito pubblico degli stati venuti recentemente in suo possesso. Ad accordo stipulato, la Francia avrebbe riconosciuto il nuovo stato italiano. Il piano poteva andare, tranne per quella parte in cui l’Italia si impegnava a difendere il papa dagli attacchi”.
Questo le avrebbe impedito di prender Roma più tardi, no?
“Napoleone disse di no: si poteva sempre provocare una rivolta dall’interno. Cavour acconsentì a far partire una trattativa, tramite il solito Vimercati, ma a un tratto Bonaparte cominciò a perdere tempo”.
Perché?
“Non era così sicuro che gli italiani, una volta ritirato il contingente francese, se ne sarebbero stati buoni. Disse che avrebbe riconosciuto lo stato italiano a camere chiuse, dopo il 20 giugno. Poi dichiarò che i francesi se ne sarebbero andati pian piano e in molti anni. Infine annunciò che non ci sarebbe stato riconoscimento se Cavour non fosse rimasto al governo. Vimercati fu autorizzato a riferirlo al conte, e lo fece il 3 giugno con un dispaccio partito da Parigi alle 5,05 del pomeriggio e giunto a Torino in poco più di due ore, alle 7,30. Diceva così:
"Sua Maestà Imperiale ha detto: ’Se il conte di Cavour fosse costretto a lasciare il Ministero, anche per ragioni di salute, io non farei più nulla del riconoscimento’”.
Ma Camillo non lesse mai quel dispaccio. Cinque giorni prima s’era sentito male e il 3 di giugno, ormai, non capiva più niente”».
Tratto da: Giorgio Dell’Arti, Cavour, Marsilio 2011.