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 2011  maggio 12 Giovedì calendario

Minghetti e il dovere di soccorrere tutti i miseri

Marco Minghetti (1818-1886), nonostante le pagine a lui dedicate da Nicola Matteucci (soprattutto), da Rosario Romeo e da altri insigni studiosi, non ha ricevuto, neppure nell’anno delle celebrazioni dei 150 anni dell’unità italiana, quell’attenzione che avrebbe meritato: e non solo come statista ma, altresì, come grande scrittore politico, tra i più eminenti del liberalismo italiano ed europeo, Le sue opere – Della economia pubblica e delle sue attinenze con la morale e col diritto, 1859; Stato e Chiesa, 1878; I partiti politici e la loro ingerenza nella giustizia e nell’amministrazione, 1881 – non sono reperibili e bisogna essere grati a Raffaella Gherardi, di aver riproposto in un volumetto pubblicato ora dalla Morcelliana, Il cittadino e lo Stato e altri scritti – assieme ad ampi stralci del saggio del 1858, due scritti significativi: quello che dà il titolo al libro e un altro sulla Legislazione sociale. Si tratta di riflessioni che hanno conservato, nelle profonde trasformazioni della società e del sistema politico italiano, una inaspettata attualità. Soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra Stato e cittadino, tra economia e politica, tra diritto e morale. Più che il confronto con lo “statalista” Silvio Spaventa, però, è forse interessante ricordare le divergenze teoriche che opposero all’emiliano Minghetti il ligure Giuseppe Saredo, giurista ed economista liberale doc, ancor più dimenticato del suo interlocutore. Saredo, anche lui appassionato cavouriano, nutriva una sconfinata ammirazione per Minghetti, di cui condivideva toto corde le idealità politiche ma non si rassegnava al principio – mutuato da Antonio Rosmini – che «le leggi che riguardano il benessere materiale» siano «sottoposte in debito gerarchico alle leggi della morale e della politica».
«Confesso schiettamente», scriveva Saredo nel saggio su Minghetti del 1861, «che la mia opinione è diversa: la giustizia sola ha l’incarico di attuare un perfetto ordine economico; se l’azione della morale fosse introdotta nella legislazione positiva, diretta ad assicurare l’esercizio dell’attività individuale, lungi dal favorire la retta e dinamica esplicazione della ricchezza non potrebbe che sviarne il corso e snaturarne il carattere. A provvedere alla produzione, allo scambio, al riparto ed al consumo della ricchezza, basta l’ufficio della libertà e della giustizia».
In discussione erano la “carità pubblica” e il dovere dello Stato di occuparsi della “questione sociale”, la gran madre degli odierni diritti sociali. Per Saredo, che si ispirava, per sua stessa ammissione, a un «soverchio rigorismo» scuole, ospedali, asili, ospizi a carico degli enti pubblici erano «radicalmente incompatibili coi principi d’un retto ordinamento sociale», fondato sul «sentimento della responsabilità individuale». Era l’antitesi della democrazia di ieri e di oggi che della protezione sociale fa un diritto costituzionale.
Il liberalismo di Minghetti, invece, consisteva nel senso profondo della solidarietà e insieme della irriducibilità delle varie dimensioni di cui è fatta l’esistenza individuale. Il diritto non è la morale, l’etica non è l’economia e, tuttavia, in mancanza di raccordi profondi, storici e culturali, le comunità umane sono avviate al dissolvimento. La carità pubblica, riconosceva, non può essere «accolta come un dato necessario della scienza» né può far parte di«un normale ordinamento economico», ma, aggiungeva, «da ciò che la beneficenza non è un dovere giuridico, cessa ella perciò di essere un dovere morale?». Il progresso, l’innovazione, l’individualismo sono cose buone ma il mercato che, sui tempi lunghi, crea ricchezza per tutti genera, sui tempi brevi, non poche rovine. Si tratta di mali transitori, che saranno «riparati dalla natura stessa delle cose», sicché «l’operaio, che a causa delle macchine ha perduto il lavoro abituale, ne ritroverà ben presto un altro»? «Anche ammesse queste proposizioni, che non mi paiono provate in modo assoluto, resta sempre una grave questione di tempo e di spazio, quella dell’intervallo richiesto a rimettere le cose in assetto, e della difficoltà dei trapassi dall’uno all’altro stato; intervalli e trapassi che costano dolori e patimenti, ai quali l’uomo di Stato, come il filantropo non possono chiudere gli occhi impunemente».
Insomma per Minghetti, accanto alle ragioni dell’economia, vi sono quelle dell’ordine pubblico e del dovere sociale. Ai nostri giorni non si sarebbe affatto riconosciuto nel liberal di Kenneth Minogue, inteso a costituzionalizzare i diritti sociali e ad annegare la politica nel diritto, linea Stefano Rodotà/ Gustavo Zagrebelsky, ma, sul piano delle “leggi ordinarie” (e sempre revocabili), avrebbe sostenuto il dovere dello Stato, condizioni economiche permettendo, di«soccorrere tutti i miseri ai quali la natura fu matrigna e nemica la sorte».