Corriere della Sera, 28 agosto 2015
Migranti, l’ennesima tragedia. Cinquanta morti soffocati (o assiderati) nella cella frigorifera di un tir sull’autostrada Budapest-Vienna. Ma Amir Hamza, 38 anni, profugo pachistano laureato in Medicina, in fuga da mesi, spiega le regole di sopravvivenza: «Uno, caricare lo smartphone appena si può: per le mappe, le informazioni su Facebook, i prezzi, i treni… Due, portare pochi soldi. Meglio farseli mandare in posta o in banca. A Belgrado c’è un ufficio Western Union con impiegati che parlano arabo. E tre, stare alla larga da chi ti propone passaggi facili. Io non ho fretta. Meglio aspettare, che morire come un animale». Sul furgone campeggiava la scritta «Carne genuina»
«Carne genuina», c’è scritto in slovacco sulla furgonatura. Un pollo che ammicca dal portellone: «Sono così gustoso perché vengo nutrito bene!». Prima di mollare il suo carico di carne umana nella piazzola di Parndorf, autostrada Budapest-Vienna, prima di scappare per l’A-4 con un po’ dei duemila euro estorti a ciascun poveretto, il camionista ha avuto almeno lo scrupolo di sbloccare il maniglione della cella frigorifera. Troppo tardi: dentro, erano già tutti morti. Da giorni. Senza cibo, senz’acqua, senz’aria.
E quando un poliziotto del Burgenland s’è avvicinato a quel camion bianco che stava posteggiato con diligenza da mercoledì sera, «ci hanno chiamato insospettiti», ieri mattina quasi sveniva. L’ha investito un tanfo orrendo. I cadaveri erano pigiati, abbracciati, indistinguibili. «Venti, quaranta, forse cinquanta – dice l’ufficiale Hans Peter Doskozil – non sappiamo dire quanti sono, perché molti corpi erano già in decomposizione». Caricati al confine con la Serbia. Destinati a quello con la Germania. Soffocati, forse assiderati. A 40 chilometri da Vienna. Poco lontano dai ministri che sulla Michaelerplatz, più o meno alla stessa ora, si riunivano indecisi a tutto per parlare proprio di loro: i disperati dei Balcani.
Non affondano in mare. Si perdono su binari morti. Spariscono nei campi sconosciuti. Muoiono per strade cieche. A Reske, sulla frontiera serba, una pattuglia ha bloccato un minivan con sopra tredici siriani, alla guida due belgradesi: un bambino aveva la febbre alta, una donna è finita in ospedale per un’infezione. Martedì, la polizia austriaca ha salvato per caso una trentina d’afghani nel doppiofondo d’un autoarticolato da sette tonnellate. E incarcerato i tre passatori, ungheresi: «L’autista ha guidato senza mai fermarsi dal sud della Serbia – ha raccontato uno dei sigillati vivi – stavamo sdraiati uno addosso all’altro, per venti ore non abbiamo potuto nemmeno bere. Credevo che passare via terra fosse più sicuro che con le barche. Invece ho pagato per rischiare di morire come un topo». Basta un intoppo, per quella fine. L’ultimo carico di cadaveri è incappato forse in una delle lunghe colonne che in questi giorni si formano alle dogane: i controlli sono più lenti che accurati, i Tir stanno fermi anche dieci ore, talvolta serve la mazzetta, e sopravvivere in una cella senz’aerazione è impossibile.
S’indaga: il camion del finto pollame apparteneva a una società del ministro delle Finanze ceco, Andrej Babis, ma l’anno scorso era stato venduto assieme ad altri sei e «gli acquirenti – comunica il politico – non hanno mai provveduto a togliere dalle fiancate i marchi della nostra azienda». Immatricolato da un rumeno in una cittadina dell’Est ungherese, risulta abbia già percorso più volte l’autostrada nell’ultimo mese, probabilmente per altri clandestini. Con le autopsie si scoprirà, come sospetta la polizia, se all’apertura del portellone erano tutti morti già da un paio di giorni. «Questa tragedia dimostra che l’Europa non è in grado di controllare i suoi confini», dice il premier ungherese Viktor Orbán: per supplire, lui ieri ha mobilitato anche gli elicotteri e stabilito d’impiantare un grande centro di smistamento nel cuore di Budapest, a due passi dallo stadio Puskás, e a Szeged sta mandando pure gl’idranti. Ci s’illude che serva, criticano le ong: 175 chilometri di puszta, steppa bassa e senza montagne, sono duri da controllare. 3.200 arrivi solo ieri, 130 mila in otto mesi: «Da qui a dicembre – calcolano nel municipio della Lampedusa ungherese – arriveranno non meno di 300 mila migranti. E qui d’inverno non c’è il mare agitato come da voi in Italia: non sarà il freddo a fermarli».
La legge in discussione al Parlamento, al voto forse la prossima settimana, punta ad abbreviare le procedure d’identificazione: «Inutile prendere le impronte digitali a tutti. I profughi di guerra, se va bene, sono uno su due. Gli altri non hanno alcun diritto d’asilo». Per chi fugge sono sottigliezze che non importano. Chi ha camminato mesi, pazienta. E sopravvive: «Regola uno – spiega Amir Hamza, 38 anni, pachistano laureato in Medicina, sistemato in una delle tende di Roszke – caricare lo smartphone appena si può: per le mappe, le informazioni su Facebook, i prezzi, i treni…». Regola due: «Portare pochi soldi. Meglio farseli mandare in posta o in banca. A Belgrado c’è un ufficio Western Union con impiegati che parlano arabo». Regola tre: «Stare alla larga da chi ti propone passaggi facili. Io non ho fretta. Meglio aspettare, che morire come un animale».