La Stampa, 28 gennaio 2015
Verdi non è stato così importante
«Giuseppe Verdi più di chiunque altro fu responsabile di tenere l’opera italiana distinta dagli stili che stavano emergendo in altri Paesi». E ancora: «ha palesemente manipolato» alcuni episodi della propria biografia per suscitare compassione. E infine: «è impensabile che le autorità austriache avrebbero dato il permesso» a rappresentare Nabucco (Milano, 1842), Ernani (Venezia, 1844), Attila (Venezia, 1846), «se quelle opere fossero state associate al recentissimo tentativo rivoluzionario». Di conseguenza, il Va’ pensiero e il suo verso più famoso – «O mia patria, sì bella e perduta» – non può essere messo in relazione al sentimento risorgimentale.
MUSICA E PAROLE
Il musicista che annoveriamo tra i «padri della patria» esce molto ridimensionato, come artista e come uomo, dalla recente Storia dell’Opera scritta da Carolyn Abbate e Roger Parker, ora tradotta per Edt (pp. 554, € 38). Gli autori, docenti all’Università di Harvard e al King’s College di Londra, sono assai influenti nella comunità internazionale degli studiosi e urge replicare nel merito, punto per punto.
1) Verdi si è evoluto moltissimo. In cinquanta anni di attività ha assimilato al suo linguaggio diversi stimoli: dal grand-opéra francese (magari obtorto collo) alla rivoluzione drammaturgica wagneriana, verso la quale, dopo l’iniziale rabbia, provava profonda ammirazione; fino a comprendere il nuovo «sinfonismo» delle prime opere di Puccini e a invitare i giovani autori a recuperare la lezione della musica dei secoli precedenti, oscurata dal trionfo del melodramma ottocentesco.
2) In meno di due anni, tra 1838 e 1840, il giovane Verdi perde prima i due figli, Virginia e Icilio, poi la moglie Margherita. In un volume del 1881, Verdi. Vita aneddotica, il francese Arthur Pougin fa morire prima la moglie, poi i figli. Secondo Abbate e Parker l’inversione della sequenza dei lutti è stata autorizzata dallo stesso compositore allo scopo di impietosire ancora di più i lettori con l’immagine di un giovane padre rimasto vedovo con due figli bambini. Ma, ormai anziano e affermatissimo, quale vantaggio poteva trarre dal mentire sulla successione delle tre morti, comunque avvenute?
3) Le tante censure dell’Italia che non era ancora Italia controllavano tutti gli aspetti del libretto, dalle scelte linguistiche all’ambientazione storica. Ma neppure il più solerte funzionario poteva prevedere l’effetto creato, sulle parole, dalla musica. Provate a cantare Va’ pensiero a tempo di samba o di rap: il risultato emotivo non sarà lo stesso! Era alla musica, ben più che alle parole, che Verdi affidava la capacità di accendere i cuori.
Nel 1847 il poeta e patriota Giuseppe Giusti rimprovera Verdi – che nel frattempo aveva scoperto Shakespeare – per non aver fatto risuonare nel suo Macbeth «la corda del dolore che trova maggiore consonanza nell’animo nostro», per aver reso più difficile l’identificazione tra la musica e lo spirito risorgimentale, come ricorda l’inglese Julian Budden, il grande studioso verdiano che Abbate e Parker citano una sola volta.
Lo spettacolo più popolare
Infiniti altri episodi, dalla prima della battaglia di Legnano durante la Repubblica romana del 1848-49 all’insistenza di Cavour perché nel 1861 Verdi accetti di candidarsi deputato alle prime elezioni italiane, testimoniano l’osmosi tra la sua musica e il farsi della nazione. E non solo nell’ambiente borghese: l’opera rimarrà fino all’avvento del cinema lo spettacolo più popolare, sia per la capillare diffusione nei 1166 teatri attivi in Italia a metà Ottocento, sia perché attraverso le trascrizioni, per banda e per ogni sorta di strumenti, usciva dalle sale, entrava nelle piazze e nelle case. Quando, nel 1836, Giuseppe Mazzini pubblica la Filosofia della musica, affida all’opera la missione di diffondere un «concetto sociale progressivo», riscoprendo i momenti eroici della nostra storia patria.
Ma di questo gli autori non dicono. Succede così quando si ignora il rapporto che lega un prodotto artistico al proprio tempo, la sua storia sociale. Purtroppo, l’impoverimento tecnicista della prospettiva è ormai dilagante e non solo nel mondo anglosassone. Studenti e ricercatori, non rassegnatevi ad accettarlo.
UN RAPPORTO SPECIALE
Dal Seicento al Novecento, gli inglesi hanno avuto due grandi e amati operisti: Henry Purcell (1659-1695) e Benjamin Britten (1913-1976), e soltanto nella seconda metà del Novecento, con Philip Glass e John Adams, gli statunitensi hanno prodotto un significativo teatro musicale. Ma questo, in passato, non ha impedito ai migliori studiosi anglosassoni di comprendere il rapporto speciale che si è creato in Italia tra musica, pubblico e società, a partire dalla nascita stessa dell’opera, nelle corti del Centro e del Nord del nostro Paese a inizio Seicento. Leggendo questa Storia dell’Opera si ha l’impressione di una scelta di argomenti mirata a gettare ombre su un musicista soprattutto e sull’intera scuola italiana, che con Rossini, Bellini, Donizetti e Puccini continua a essere rappresentata ovunque nel mondo, costituendo un primato da tutti riconosciuto. In verità, neppure a Wagner va molto meglio, come dimostra la semplificazione con cui nel libro (a pagina 327) viene riassunta la trama dell’ultimo atto del Crepuscolo degli dei.