Corriere della Sera, 27 agosto 2015
Mentre Pechino censura la tristezza dai titoli di Borsa, ma solo sui giornali, le autorità hanno messo sotto inchiesta 5 agenzie di intermediazione per «omissione di verifica dell’identità dei clienti secondo le norme e negoziazione illegale di titoli». Significa che i broker hanno consentito a qualche grande azionista di vendere nonostante il divieto. E Xi non può neanche licenziare Li Keqiang, il primo ministro che aveva escluso ogni ipotesi di svalutazione dello yuan, perché ammetterebbe che il partito ha sbagliato rotta
Di chi è la colpa se la Borsa in Cina ha perso il 40% in due mesi e mezzo? Chi è responsabile se la Banca del Popolo deve spendere miliardi per tenere stabile lo yuan, dopo la svalutazione a sorpresa? Nel dubbio, ieri le autorità cinesi hanno messo sotto inchiesta cinque grandi agenzie di intermediazione azionaria per «omissione di verifica dell’identità dei clienti secondo le norme e negoziazione illegale di titoli». Significa che i broker hanno consentito a qualche grande azionista di vendere, nonostante il divieto imposto dal governo nel tentativo vano di fermare la caduta del mercato.
Prendersela con le agenzie di brokeraggio, di fronte a circa cinquemila miliardi di dollari evaporati dalla Borsa, è assurdo. In Cina il problema è di politica economica, al massimo livello. E per i capi del Partito-Stato è un problema di faccia, di «mianzi», come si dice in mandarino: chi perde la sua mianzi è finito.
I segnali a Pechino indicano che la caccia al capro espiatorio è aperta e può puntare molto in alto. Il presidente Xi Jinping ha creato grandi tensioni all’interno del sistema con la sua campagna anti-corruzione che è costata il posto (e il carcere) a oltre cento dignitari e almeno centomila funzionari e burocrati di medio livello. E si dice che qualche grande vecchio stia cercando di fermarlo: le voci sono arrivate sui giornali controllati dal partito comunista, che hanno definito l’opposizione «ostinata e feroce oltre l’immaginabile». Il «Quotidiano del Popolo» ha anche dovuto ammonire gli ex leader in pensione a lasciare ogni nostalgia per il potere e a starsene a casa «a raffreddare come una tazza di tè dopo che l’ospite se n’è andato». Se il potere in Cina funzionasse come in Francia, il presidente-imperatore avrebbe già liquidato il suo primo ministro. E in effetti qualcuno a Pechino dice che il premier Li Keqiang rischia il posto. Le voci sono state raccolte dal «Financial Times» che in un articolo a firma «FT Reporters» ricorda come il sempre sorridente Li avesse escluso ogni ipotesi di svalutazione dello yuan e si sia fatto cogliere impreparato dalla caduta di Shanghai e Shenzhen. Oltretutto, Li Keqiang viene dalla fazione della «Lega giovanile comunista», che fino all’ultimo ha cercato di sbarrare la strada a Xi Jinping (esponente della cosiddetta nobiltà rossa). Ma Pechino non è Parigi: licenziando ora il suo primo ministro, Xi ammetterebbe che il partito, al suo massimo livello, ha sbagliato rotta, commettendo errori nella direzione economico-finanziaria, proprio quella che con decenni di crescita ha garantito la legittimità di un governo comunista non eletto di fronte al popolo cinese (ma anche davanti alla comunità internazionale). Un’altra ipotesi è che Xi e il Politburo aspettino la scadenza del primo dei due quinquenni di mandato, nel 2017, per trovare una via d’uscita dignitosa e avvicendare Li Keqiang.
Nel frattempo, il problema di chi incolpare ora per la crisi resta aperto. Da quando è al vertice, il presidente Xi ha fatto di tutto per presentarsi come il nuovo Deng Xiaoping, il grande riformatore pronto a rinnovare la Cina, facendola transitare dal grado di produttore ed esportatore di beni a basso costo a quello di grande mercato maturo, spinto da consumi interni e servizi. Nei primi due anni e mezzo di ricetta Xi-Li, la crescita è rallentata al tasso più basso da 25 anni: il 7%. Forse è presto per giurare che il miracolo cinese è finito. Ma c’è il problema della faccia: ancora a giugno i giornali statali invitavano i cinesi a investire in azioni e quando la Borsa ha cominciato a scendere (com’era inevitabile dopo essere cresciuta del 150% in un anno), il governo ha bruciato almeno 200 miliardi di dollari per sostenere i titoli. Come si è visto non è servito. Poi, dall’11 agosto, Pechino ha dovuto spendere altri 200 miliardi in valuta estera per evitare che lo yuan si deprezzasse più di quanto incautamente pianificato. Ai giornali è stato ordinato di non usare nei titoli sulla Borsa parole come panico, crollo, tristezza; il «Quotidiano del Popolo» ha pensato bene di non parlare proprio di Shanghai e in prima pagina aveva l’economia del Tibet. Tutto per salvare la «mianzi» del partito.