Corriere della Sera, 27 agosto 2015
Morire per un euro al quintale. Il giallo del cadavere del bracciante fatto sparire dai caporali e i quattro morti in quaranta giorni. Lavorare nei campi è sempre più difficile, si viene pagati per lo più in nero. È del 43% la quota sommersa registrata nel settore agricolo
È la quarta vittima in quaranta giorni. Un morto ogni dieci giorni. E sempre che Arcangelo De Marco, 42 anni, riesca a uscire dal coma, dopo essersi accasciato al suolo nelle campagne di Metaponto, l’8 agosto scorso. Altrimenti, di morti dovremo contarne cinque, uno ogni otto giorni.
Un altro immigrato di 30 anni – questa la denuncia di Yvan Sagnet, responsabile del Dipartimento immigrazione della Flai-Cgil Puglia – un africano del Mali, sarebbe morto due settimane fa nelle campagne di Rignano Garganico, una ventina di chilometri da Foggia, luogo noto come «Il ghetto», una baraccopoli indegna in cui ogni estate si concentrano circa 2 mila lavoratori immigrati. Il giovane africano, sempre secondo la denuncia di Sagnet, sarebbe morto dentro uno dei 57 cassoni di pomodori raccolti nei campi di Rignano e il suo cadavere sarebbe stato poi occultato dai «caporali». Della morte del giovane Sagnet è certo, e il fatto che negli obitori degli ospedali di Foggia e di San Giovanni Rotondo non se ne sappia nulla confermerebbe la sua ipotesi di occultamento del cadavere.
Il sindacalista afferma anche che ottenere informazioni nella baraccopoli di Rignano Garganico è difficile, per il clima di terrore che imbavaglia i lavoratori stagionali, che temono per la pelle e per la perdita del lavoro, anche se durissimo e per lo più in nero. D’altra parte, le ultime vicende non sono state incoraggianti, da questo punto di vista. Per la prima delle quattro vittime morte sul lavoro, Paola Clemente, tarantina di 49 anni, il pm di Trani aveva archiviato la vicenda come «morte per cause naturali». C’è voluta la denuncia della stampa e del marito per ottenere che il cadavere di Paola fosse riesumato e venisse disposta l’autopsia. Nel caso del giovane del Mali, gli accertamenti sono più difficili. Per una semplice ricerca nei propri archivi, che aiuti a stabilire se, quando e dove è morto il giovane lavoratore africano, il servizio «118», dice Sagnet, «vuole una richiesta formale firmata da un nostro legale».
Chissà se quest’altra vittima alla fine avrà un volto e un nome e se servirà a evitare la solita retorica del giorno dopo. Ora, dopo un po’ di morti, anche un po’ di controlli. I carabinieri del Comando di Foggia e del gruppo Tutela lavoro di Napoli, hanno controllato ieri 61 aziende agricole del Foggiano. Più della metà irregolari. Mentre su 430 lavoratori gli irregolari sono 71 e 64 in nero.
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Lavorare in nero, cioè senza uno straccio di contratto, o in grigio, con un contratto finto, da cui risulti un salario doppio o triplo di quello reale è una pratica molto ben collaudata nei grandi lavori stagionali agricoli. Specialmente nel Sud Italia.
Nelle campagne questo sfruttamento grigio-nero è molto più «nero» che grigio. Per il colore della pelle della maggioranza dei lavoratori. Per la fatica bestiale che richiede, non meno di 10-12 ore sotto il sole cocente, con paga «a cottimo», 3 euro per ogni cassone di 3 quintali di pomodori. Per gli abusi d’ogni tipo sulle persone, che nei confronti delle donne sono ovviamente abusi sessuali. Per il taglieggiamento continuo sui lavoratori: la percentuale di 50 centesimi per ogni cassone di pomodori; il «biglietto» di 5 euro a cranio per il trasporto sul luogo di lavoro, stipati anche in quindici in furgoni e in utilitarie; il «contributo» di un euro su ogni bottiglia di acqua per dissetarsi.
Secondo i dati dell’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, 15 province italiane assorbono il 50,6 per cento della manodopera agricola straniera e, tra queste, la provincia di Foggia è al primo posto, con il 6,4 per cento. Il Tavoliere è dunque soltanto il picco più alto di questo infinito dramma, che nonostante i proclami è l’unica «filiera» agricola che funzioni davvero. Una «filiera» in cui vengono triturati non solo i neri africani concentrati in ghetti come quello di Rignano Garganico, che è solo il più grande e il più mediaticamente efficace, ma anche i bianchi europei della ex Europa dell’Est – romeni e bulgari su tutti —, che fanno i «pendolari» e terminata la stagione «da neri» tornano in patria, con qualche euro e molte umiliazioni in più.
L’emergenza quindi è stabile, endemica, aggravata dall’aumento di offerta di manodopera dovuta ai sempre più numerosi arrivi di clandestini e di rifugiati richiedenti asilo in cerca di lavoro. Tutto questo è manna per i «caporali» e per la grande distribuzione agroalimentare. Anche per i produttori, certo, ma questi, se non sono latifondisti, sono in qualche modo anch’essi vittime della «filiera», perché i prezzi del prodotto li fa la distribuzione, e il produttore, «per stare nei costi», si risolve a impiegare la manodopera arruolata dai caporali. Non solo. C’è poi la burocrazia, che spesso e volentieri, per concedere agli immigrati il permesso di soggiorno si ostina a chiedere loro «la residenza» (che non c’entra nulla), così da alimentare tutta una compagnia di giro – composta da avvocati, consulenti, cooperative di servizi vari – che procaccia e vende contratti di affitto e documenti di varia natura che gli immigrati comprano per non diventare «fuorilegge».
E così un altro giro di giostra ricomincia. Fino al prossimo «caso umano», alla «scoperta» del prossimo ghetto, alla solenne istituzione del prossimo «Tavolo istituzionale interforze permanente contro l’illegalità e il lavoro nero» (nientedimeno). Ma strutture da campo mobili e temporanee per i lavoratori stagionali, con permesso di soggiorno e garanzia del diritto alla salute, con costi di residenza e trasporto anche a carico della grande distribuzione e delle organizzazioni dei produttori, no? Una cosa del genere, la fece Jacob Fugger ad Augusta, nel 1516. Non era Mao Zedong, ma uno dei più grandi capitalisti dell’età moderna.