la Repubblica, 27 agosto 2015
Cina, più sale reddito pro-capite più rischia la dittatura, perché «una volta arrivati più o meno a questo livello, subentra la democrazia». E Pechino lo sa bene: ulteriori cambiamenti economici porteranno inevitabilmente all’instabilità politica. E questo non può affatto dirsi un forte incentivo per procedere alla riforma del governo
Un paio di settimane fa, il Fondo Monetario Internazionale aveva riferito alla comunità internazionale che la Cina in sostanza stava andando benone. Il rischio principale che il rapporto evidenziava, però, era che la spinta riformista del governo cinese in campo economico potesse rivelarsi “insufficiente”. Sembra proprio che quel rischio di fatto sia molto grande. I mercati finanziari sono stati scombussolati dalla decisione di Pechino dell’11 agosto di svalutare la propria moneta all’improvviso, pochi giorni prima che l’Fmi pubblicasse il suo rapporto.
Malgrado tutte le rassicurazione dell’Fmi sembra invece che gli investitori l’abbiano preso per un inquietante segnale della disperazione della leadership cinese. «La barcollante economia cinese ha un disperato bisogno di una valuta più debole» ha scritto Diana Choyleva del Lombard Street Research. «Stiamo assistendo ai primi passi di un regime monetario più flessibile o a quelli di una svalutazione di vecchio stampo?».
«In media, le nazioni autocratiche crescono più rapidamente di quelle democratiche, più o meno fino al punto raggiunto attualmente dalla Cina» dice David Dollar, ex rappresentante cinese alla Banca Mondiale ed emissario del Dipartimento del Tesoro in Cina, oggi al Brookings Institution. «Tuttavia, i casi di successo indicano che, una volta arrivati più o meno a questo livello di reddito pro-capite, subentra la democrazia».
Ecco dunque in che modo Pechino intuisce la situazione: ulteriori cambiamenti economici porteranno inevitabilmente all’instabilità politica. E questo non può affatto dirsi un forte incentivo per procedere alla riforma del governo.
Un regime totalitario può essere abile nell’impegnare capitali e manodopera per ottenere una crescita economica pura e semplice. Se in passato il criterio del “fai crescere l’economia e proibisci le manifestazioni” può aver dato i suoi frutti, nei paesi che raggiungono lo status di stati a reddito medio un apparato burocratico di comando e di controllo incontrerà le sue belle difficoltà a gestire le sempre più complicate richieste della cittadinanza.
Kenneth Lieberthal, esperto di problematiche cinesi presso il Brookings Institution, dice: «L’apparato di governo deve fare maggiore affidamento sull’innovazione e offrire più servizi ai migranti che lasciano le campagne per trasferirsi in città». Il susseguirsi dei piani quinquennali in Cina ha sempre posto un unico obiettivo ai funzionari governativi locali: crescere. E ciò li ha indotti a lanciarsi a capofitto in una frenesia di prestiti per costruire di tutto un po’, dalle strade alle aree industriali, col risultato di mettere spesso in moto anche un meccanismo di laute tangenti per i funzionari locali e le loro famiglie.
Per comprendere la difficile situazione in cui versa la Cina, Dollar ha paragonato l’esperienza di quest’ultima ad alcune delle più note storie di sviluppo economico di successo degli ultimi cinquant’anni: dal Giappone, che raggiunse il livello di reddito pro-capite della Cina agli inizi degli anni Settanta, a Taiwan che ha varcato questa soglia nei primi anni Ottanta, e alla Corea del Sud che l’ha fatto intorno al 1990.
Ciò che più colpisce, in ogni caso, non è in che modo questi tre paesi abbiano seguito strade alquanto simili, ma in che modo la traiettoria cinese si sia discostata da esse.
Le spese delle famiglie sono sempre state, in tutti questi tre casi, il motore trainante della domanda, e sono andate progressivamente calando fino a raggiungere il 50% del Pil non appena i nuclei famigliari arrivavano a un livello di ricchezza equiparabile a quello cinese odierno. I tassi di investimento, impennatisi bruscamente nelle prime fasi del loro sviluppo, arrivarono nello stesso periodo a sfiorare la soglia del 35% circa del Pil.
In rapporto a questi indici, l’economia cinese è tutta alla rovescia: la spesa delle famiglie in beni di prima necessità rappresenta appena il 35% del Pil nazionale – uno dei livelli più bassi di tutto il mondo.
Il suo tasso di investimento, invece, è straordinariamente elevato, quasi il 50% del Pil. Ma la produttività degli investimenti è insoddisfacente. La transizione della Cina sarà estremamente più complicata a differenza di Giappone, Taiwan e Corea.