www.ecoitaly,net, 11 ottobre 2009
Ricasoli fattore e uomo d’affari
1 – Questa storia ha per protagonista un grande del Risorgimento, Bettino Ricasoli (1809-1880), noto anche con il soprannome di “Barone di Ferro”, che ebbe il suo nido d’aquila nel Castello di Brolio in quel Chianti in cui, dopo circa cinquant’anni dalla sua scomparsa, si muovono i piccoli personaggi delle veglie di Porcignano.
Su Bettino Ricasoli sono stati scritti parecchi libri e gli storici, in occasione del centenario della morte, si sono dati per due volte convegno per discutere dottamente sulle sue imprese, la sua opera e la sua personalità, guidati dalla fluida parola di Giovanni Spadolini (Vedi Nota 1- fine pagina) che in precedenza aveva dedicato al barone chiantigiano degli ispirati saggi (Vedi Nota 2).
Ricordiamone i tratti essenziali. Bettino Ricasoli, discendente della più grande famiglia di feudatari del Chianti, fu il personaggio d’azione più influente della “consorteria dei moderati toscani”, nella quale si ritrovano alcuni bei nomi di quella aristocrazia che, con molte particolarità, si collocò nella destra storica italiana, ma Bettino – secondo Spadolini – ne fu l’unico esponente che ebbe il rispetto di Mazzini e l’affetto di Garibaldi.
Egli fu il capo del movimento che propugnò e poi realizzò l’annessione della Toscana al regno sabaudo e, dopo l’Unità, rivestì importanti cariche politiche fra cui, per due volte, quella di primo ministro, la prima volta dopo la morte di Cavour. Ma il barone chiantigiano fu anche un uomo d’affari che riuscì ad aumentare grandemente il patrimonio familiare e fu un innovatore nel campo delle tecniche agricole; sua è la celebre formula del vino Chianti Classico e sua è una lungimirante politica commerciale per l’affermazione di quel vino. Il fascino che Bettino Ricasoli ha esercitato su una parte dei suoi contemporanei e soprattutto su coloro che poi si sono occupati di lui in sede storica non deriva però tanto dalla sua opera quanto dalla sua personalità, dal suo temperamento e dalla forza ferrea della sua volontà; inoltre notevole fascino esercita ancora “il Ricasoli eretico, riformatore, permeato di influenze elvetiche e trasalimenti calvinisti” (Vedi Nota 3). Ma a tutto questo autori come Pischedda (Vedi Nota 4), Pazzagli (Vedi Nota 5), Sestan (V.N.6) hanno aggiunto nuove analisi basate soprattutto sulle numerosissime lettere scritte da Ricasoli (V.N.7), dalle quali la sua personalità risulta più approfondita uscendo definitivamente dalla tradizione agiografica dei vecchi scrittori del Risorgimento. È un uomo meno eroe, ma più vero e nel quale, come quasi sempre accade per gli uomini anche grandi, le opere che hanno inciso più profondamente nella storia si accompagnano a finalità meno nobili e più venali di quelle dichiarate. Forse è per l’influenza esercitata su di me da tali nuovi contributi che mi è sorta durante la veglia, quando sono saltati fuori – sia pure marginalmente – i Ricasoli, una nuova curiosità, anche in collegamento con lo spirito dei racconti di Marcello Vanni: come i contadini videro e giudicarono il loro padrone Bettino? Per rispondere a questa domanda non essendo più viventi i contemporanei di Bettino, è stato necessario rivolgersi a coloro che – nati qualche decennio dopo la sua morte – hanno conosciuto i contemporanei del barone ed hanno ascoltato da essi la “loro” storia in un tempo in cui la trasmissione orale dei fatti, delle leggende e dei fantasmi era vivissima, specialmente durante le veglie (V. N. )8. Si tratta di un mondo totalmente diverso da quello delle veglie di Marcello Vanni, un mondo che oggi è conservato soltanto da poche persone anziane che, oltre al ricordo, hanno ancora vive suggestioni e superstizioni.
2 – Il racconto che conserva più spiccatamente tali caratteri è quello fantastico del “confinamento” dell’anima dannata del Barone di Ferro nel Borro dell’ Ancherona. Conviene partire da esso, anche perché consentirà collegamenti con altri racconti più o meno fantastici e con accadimenti reali. La narrazione trascritta, che si distingue dalle altre per il vernacolo antico e colorito, è quella raccolta dalla voce di Pietro Baldi, detto il Moro, nato nel 1901 nel podere Le Piane, della fattoria di Meleto di proprietà dei Ricasoli, podere che la sua famiglia coltivava da diverse centinaia d’anni (V.N. 9): «Come ho sentito dire a’ mi’ vecchi e a i’ Prosperi, che lui c’era e gli stea a San Regolo e co’ i’ su’ figliolo ho fatto il militare insieme, quando Betto morì era dannato dalle cose poco bone che gli aveva fatto. In chiesa a Gaiole gli faceano i’ mortorio, ma entrarono farfalloni e tutti gli animali a spengere le candele che parea un terremoto e gli ebbino a smettere. A Brolio ci aveva la Cappella, lo metteino [nella tomba] o il giorno o la sera o la mattina lo trovaino all’uscio’.
Un frate disse: «in do’ deve ire [l’anima sua] lo troverò io». [Degli uomini presero in spalla la bara] ma da quanto era peso non lo portaino e li diceano a questo frate: «non si può portar più, è troppo peso». E lui [il frate] leggea, leggea. Quando arriò a un certo punto [il frate domandò] ai portantini: «l’è alleggerita la bara ora?» [Risposero i portantini]: «ora sì, si porta bene». [Si sentì una voce, quella di Bettino, che rivolto al frate diceva:] «o frate io voleo la strada per andare a Roma».[E il frate :] «no, [ soltanto] dieci metri più degli altri». E Bettino: «o frate, tu hai rubato un tordo [non sei senza peccato e quindi non puoi confinarmi]. [E il frate] «si ho rubato, ma ci ho messo [ al suo posto] quattro crazie. Quando andava quello [il proprietario del laccio] a rivedere il laccio’ in do’ gli era il tordo ci trovava le crazie. lo non ho rubato nulla». E lo confinò nel Borro dell’ Ancherona. Morta la serpe sperso è il veleno. A mutazione di tempo ci si sentiva».
lo domando: ci si sente ancora? Risponde la moglie di Pietro: «Quando ci stava la mi’ sorella alla Villa a Sesta, 30 anni fa, e ci aveano il bosco al Borro dell’ Ancherona, lei non ci andava mai, l’aspettava i maiali lontano, c’era sempre un rumore da far paura». Allora domando: si tratta pur sempre di cose di trent’anni fa; sembra che ora non ci “si sente” più nel Borro dell’ Ancherona; è vero che contadini e contadine che badano i maiali non ci sono più, ma qualcuno di tanto in tanto al borro va ancora. La risposta di tutti è stata press’a poco questa: può darsi che Dio abbia liberato dal confino la anima di Betto.
E domando ancora: oltre che dal Prosperi avete sentito raccontare questa storia da altri? Risponde la moglie di Pietro: «10 dalla mi’ nonna [che era nata nel 1860 e quindi quando morì Bettino Ricasoli aveva 20 anni]. Gli dicevo «ma è vero nonna?» [E lei rispondeva:] «non essere cattiva bambina, sennò lo fanno anche a te». Poi aggiunge che oltre a Bettino Ricasoli si dannò anche un prete che si chiamava Quadri di cognome. «[Questo prete] gli aveva messo [a Bettino] una particola consacrata in una mano. Questo Barone, quando aveva alzato la mano con la particola, fermava tutti. E si dannò anche il prete».
La storia del confinamento dell’anima di Bettino Ricasoli nel Borro dell’ Ancherona è stata ripetuta con qualche aggiunta e molte detrazioni da tutti i vecchi contadini con cui ho parlato. Una variante interessante è quella raccontata da Gioconda Ermini, zia di Marcello Vanni, nella quale è evidente la mano di qualche non sprovveduto cultore della morale cristiana: al frate che lo confinava Bettino avrebbe detto: «I miei confini sono quelli di Brolio». «Meno, meno, meno» rispose il frate e lo confinò nel piccolissimo e selvaggio fazzoletto di terra del Borro dell’ Ancherona, lui che in vita aveva posseduto tanta terra ed era stato tanto potente.
3 -Il racconto del confinamento di Bettino suscita naturalmente molte domande. Quali erano le cose “poco bone” che egli aveva fatto? Forse non era stato un “buon padrone” con i suoi mezzadri, forse pretendeva più di quanto essi gli dovevano, forse esercitava altre forme di sopraffazione?
Le risposte ottenute sono state piuttosto vaghe perche poco o nulla viene ricordato. Il fatto che più è rimasto impresso è che Bettino Ricasoli quando era già vecchio avrebbe «tettato [poppato] forzatamente», per ringiovanire, contadine che allattavano al seno i loro bambini. È difficile immaginare il Barone di Ferro, ormai vecchio, che succhia dalle mammelle delle giovani contadine il latte come un piccolo neonato. Ma non bisogna dimenticare che fino al tempo di Bettino si riteneva che il latte umano avesse la proprietà di guarire molte malattie e questo è attestato da antichi testi di medicina.
Ho comunque messo in dubbio la verità del racconto, anch’esso – come quello del confinamento – di dominio pubblico fra i vecchi contadini e non soltanto fra di essi. Ma la moglie di Pietro Baldi non ha dubbi e afferma: «La mi’ nonna la raccontava che la su’ mamma era venuta [proveniva] da San Regolo e una che stava vicino alla su’ mamma gli era successo quest’ affare. Andava a trovarla Bettino Ricasoli a casa e l’obbligava. Lei diceva: «che gli dò al mi’ bambino?» Diceva lui: «al bambino gli fate la pappa».
Una fantasia, anche questa, del tipo di Bettino “confinato”? Direi proprio di no non tanto perché la circostanza è confermata da altre fonti, quanto perché non si tratta di fenomeni soprannaturali, ma di una fatto materiale nel quale sono coinvolti gli stessi contadini e in questo caso e in casi analoghi la memoria può essere appannata, ma è sempre bene ancorata alla realtà.
Se questo è vero le contadine obbligate a farsi “tettare” dal vecchio padrone non sono che un’espressione, sia pure estrema, della condizione femminile e contadina nei primi decenni dell’unità d’Italia.
Di Bettino Ricasoli nella mente dei contadini è rimasta impressa la durezza del carattere.
Raccontano Pietro Baldi e la moglie: «Per far venire forti i figlioli la mattina scalzi dovevano fare tre giri di corsa nel piazzale. Le figliole morirono tutte meno [fatta eccezione] una mutola [sordomuta], perché [per irrobustirle le portava a cavallo] quando trovava una pozza d’acqua le tuffava e le rimetteva a cavallo» (V.N.10).
Altra colpa attribuita a Bettino fu quella di aver “messo le tasse”. È noto che subito dopo l’unità d’Italia vi fu un forte inasprimento delle imposte che in epoca granducale erano state assai tenui. L’attribuzione al solo Bettino non è corrispondente alla realtà, ma si spiega con il fatto che i contadini collegavano l’immagine del potere e delle sue manifestazioni al solo Barone e non agli altri governanti e tanto meno il piemontese Quintino Sella, principale autore della severa politica fiscale.
Ma la colpa più grave, per i contadini intervistati, era quella di aver profittato di essa per allargare la sua già vasta proprietà. Infatti sempre secondo Pietro Baldi i rilevatori catastali chiedevano ai contadini: «Di chi è questa terra?» I piccoli proprietari, timorosi di pagare le imposte, non si facevano avanti e Bettino poneva i suoi termini dicendo: “Ditta Ricasoli”. Si tratta di azioni che il Barone di Ferro non può aver fatto poiché la legge catastale è del 1886 e le rilevazioni catastali iniziarono successivamente, quando il barone era già morto; come sempre accade per le cose lontane vi è nella memoria una confusione cronologica, un accavallamento di fatti e talvolta anche uno scambio di persone.
Ma un fondo di verità pur tuttavia vi era, così come è stato possibile documentare con una testimonianza che appare, almeno nella sua sostanza, assai precisa. A Vertine un ramo dei Visconti, che sembra provenisse dalla Lombardia, aveva una proprietà di non grande dimensione che negli anni del Ricasoli era pervenuta ad un rampollo, nato nel 1839 (dunque più giovane di Bettino di trent’anni), al quale piaceva condurre una vita molto superiore ai suoi mezzi. Secondo questa testimonianza Ricasoli gli prestava volentieri i denari che sapeva poi non avrebbe restituito; anzi, «se gli chiedeva quattro, gli dava cinque».
Alla scadenza dei prestiti il barone poteva così impadronirsi delle terre date in garanzia dal Visconti e mandava a mettere i suoi “termini”. Questo Visconti, morto quasi centenario nel 1935, aveva per Bettino un profondo disprezzo e raccontava che quando il Barone si fu impossessato di tutti i suoi poderi gli disse brutalmente: «Ora non mi scocciare più. lo sono un uomo d’affari e non ho più convenienza ad aiutarti». Al che il Visconti rispose: «Allora tu se hai un parente povero non l’aiuti?» Ed il Ricasoli: «No, lo farei affogare». Tuttavia è pensabile, dato il carattere del Barone, che abbia aggiunto «se si fosse comportato come te». È da notare a questo punto che tutti gli episodi ricordati riguardano poco il comportamento del Barone verso i contadini stessi, per il quale vi è invece un’ampia documentazione proveniente dalla fonte scritta (V.N.11); ed è anche da domandarsi: i racconti fin qui trascritti sono espressione del modo in cui i mezzadri vedevano Bettino o hanno un loro significato particolare non generalizzabile? Sentiamo anche altre voci: quella dell’ex mezzadro Donato Manganelli, nato nel 1894, la cui famiglia ha avuto una singolare fedeltà ai Ricasoli.
Si tratta di una fedeltà che ha caratteri eccezionali fra i mezzadri, specialmente negli ultimi decenni, ma che nel caso dei Ricasoli non era del tutto isolata. Anche la famiglia di Pietro Baldi era – almeno fino alle lotte mezzadrili – una delle famiglie “fedeli” e Pietro affermava che nella «genia di Bettino c’erano delle degne persone»; in particolare aggiungeva che: «Il figliolo di Betto [in realtà il nipote] era una degna persona, si chiamava Giovanni e quando venia a caccia, venia a desina da no altri a Le Piane dalla mi’ nonna. E a dormire gli andava sulla tavola».
Per Donato Manganelli la fedeltà verso i Ricasoli arriva fino al coetaneo Barone Luigi, con il quale anzi era stato fin da ragazzo in amicizia quasi fraterna. Anche Donato Manganelli ha sentito raccontare la storia del confino di Bettino nel Borro dell’ Ancherona (che lui chiama Ripa) e ha sentito parlare del latte poppato alle giovani madri ma, quasi con una punta di orgoglio, il figlio (che si esprime in buon italiano), confermato dal padre, dice che: «Il Barone Bettino viaggiava sempre a cavallo. Quando i miei avevano bisogno di parlare con lui stavano attenti per sentire sulla costa sferrare il suo cavallo. Quando lo sentivano andavano sulla strada comunale al bivio e lì facevano il loro colloquio e poi ripartivano. Non a tutti i contadini il Barone consentiva di farsi fermare per strada. Lo potevano fare i Manganelli, i Secciani, i Baldi e i Pallanti. Non è vero che fosse cattivo.
Era duro, ma lo faceva a fin di bene. Per esempio quando incontrava dei ragazzi si avvicinava a loro con il cavallo per abituarli a non avere paura di lui e del cavallo; invece i ragazzi si spaventavano e i loro genitori, quando lo venivano a sapere, imprecavano contro il Barone”.
Osservo che queste piccole cattiverie (se così si possono chiamare) non giustificano la diffusa leggenda della dannazione di Bettino Ricasoli. Forse dietro di essa ci sono motivazioni religiose, che riguardavano le notissime posizioni del Ricasoli di riforma della Chiesa e, ancor più, la legge sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico della quale fu uno dei promotori, ma anche uno dei beneficiari poiché gli consentì di entrare in possesso di vaste fattorie già di proprietà di ordini religiosi messe all’asta, e precisamente la Fattoria della magnifica Pieve di San Polo in Rosso e la Pieve di Spaltenna. E allora domando: cosa dicevano i preti del Barone di Ferro? Risponde Donato Manganelli: «Sono stato sacrestano a Castagnoli di Don Puledrini e con lui qualche volta s’entrava a parlare dei Ricasoli. Diceva che i Ricasoli avevano rubato alla Chiesa e per questo un giorno avrebbero finito il loro patrimonio».
4 – Le notizie fin qui raccolte potrebbero essere giudicate di modesta importanza e di nessun valore storico; e anche delle leggende sul barone chiantigiano non è facile capire il significato. Tuttavia mi sembra che con l’aiuto delle più volte citate analisi storiche basate su documenti scritti sia possibile trarre da quanto finora detto qualche utile e, in parte almeno, nuova interpretazione della figura del Ricasoli e, quel che qui più interessa, della condizione contadina nella società toscana negli anni dell’Unità d’Italia. Il nodo centrale per capire la situazione della campagna chiantigiana (e forse non solo di quella) in quegli anni è sicuramente il rapporto conflittuale fra il barone ed i parroci. Ho riportato più sopra il drastico giudizio di Don Puledrini sui Ricasoli e posso attestare che sentimenti poco benevoli verso il Barone di Ferro sono ancora oggi diffusi fra i parroci chiantigiani, anche se questi non sono estesi ai suoi discendenti.
Il conflitto fra i parroci e Bettino Ricasoli fu assai aspro, malgrado il barone avesse il “patronato” in molte parrocchie che ricadevano all’interno delle sue fattorie e anche all’esterno di esse; ciò fra l’altro, significava che la nomina dei parroci in tali parrocchie da parte della Curia poteva avvenire solo con l’approvazione dei Ricasoli e questo, per un uomo come il barone di Ferro, significava che era lui stesso ad effettuare tale nomina (V. N. l2).
Malgrado questa forma di dipendenza i parroci non potevano accettare gli interventi di Ricasoli nell’ufficio sacerdotale, interventi che erano talvolta assai pesanti come ad esempio nelle prediche quaresimali nelle quali, scrive Sestan «aleggia lo spirito più ancora che di Pietro Leopoldo, di un Giuseppe II Imperatore, una sorta di cesaro-papismo in sessantaquattresimi. La stessa pretesa di dettare, lui laico, le norme della pratica religiosa» (V.N.13).
Del resto il Ricasoli non si limitava a dare istruzioni ai predicatori, ma provvedeva egli stesso ad impartire l’istruzione religiosa ai giovani contadini, con il prete accanto. Inoltre, come scrive sempre Sestan, «non si risparmia ad aprire nel castello di Brolio scuole domenicali e serali per svegliare l’intelligenza dei suoi contadini e cavarne degli agricoltori migliori, non chiusi nel loro atavico tradizionalismo, nè avversi ai nuovi processi tecnici che il Ricasoli introduce nelle sue terre. Certo egli è autoritario, talora dispotico» (V. N.14).
Può sembrare strano che a proposito delle prediche del Barone non risulti, malgrado le specifiche domande, sia stato «sentito dire nulla ai nostri vecchi». Ma a ben pensarci la cosa non può sorprendere: le prediche del Ricasoli non potevano che apparire delle cose stravaganti, non degne di essere ricordate, dato che per le prediche vi erano in quei tempi parroci professionisti. Probabilmente esse erano ascoltate in silenzio e con falsa attenzione poiché il Barone non avrebbe consentito manifestazioni di dissenso (V. N.l5). Certo è che queste prediche e lo zelo religioso di Ricasoli non impedirono poi alla fantasia dei contadini di mandare il Barone di Ferro nell’inferno del Borro dell’ Ancherona.
I motivi di risentimento del barone verso i parroci riguardavano la loro condotta morale, la richiesta ai contadini di elemosine, ma soprattutto – come scrive il Pazzagli – «l’atteggiamento di Ricasoli diveniva particolarmente rigido nei casi in cui “questi preti” tendevano a intromettersi fra lui e i contadini con danno economico e morale, a suo avviso, per questi, spinti alla disobbedienza proprio qui ’in mezzo a cinquanta miei poderi...in mezzo a questa mia proprietà, a contatto mio’» (V. N.16). Si trattava del caso clamoroso di un sacerdote che nel 1840, in occasione della festa della Compagnia della Madonna di Brolio, aveva osato dire dal pulpito: «Se il vostro padrone vi ordina, non dovete obbedire».
È questo certamente un residuo dell’antico conflitto nel quale erano coinvolti i mezzadri, allora schiacciati fra la soggezione materiale verso il signore di Brolio e gli altri signori e quella culturale nei confronti dei parroci. Soggezioni queste che erano state, per molto tempo, fra loro intrecciate ed interdipendenti, ma che nel caso di Ricasoli ebbero non poche e talvolta profonde smagliature. Vero è che non solo al tempo di Marcello Vanni, ma anche al tempo di Bettino Ricasoli e prima, i contadini sparlavano «della gente, specialmente dei preti» (V. N.17). Ma ciò non significava allora indipendenza politica – tanto meno religiosa – dei contadini dai parroci; sarà solo quando si porranno le condizioni anche materiali per la nascita e lo sviluppo del movimento contadino che la scarsa stima verso i preti avrà un qualche peso per spostare i contadini verso posizioni di sinistra. Ma è ben noto che dove i parroci presero posizione a favore delle rivendicazioni dei mezzadri, per lo meno in un primo momento, si affermarono le leghe bianche di ispirazione cattolica.
I tempi non erano ancora maturi e le gerarchie ecclesiastiche non avrebbero consentito ai parroci di battersi per la modificazione dei rapporti sociali allora esistenti. La controversia con Bettino riguardava soltanto la sua politica unitaria e la questione della liquidazione dell’asse ecclesiastico. Così l’anima del Barone di Ferro venne “confinata”, con l’immaginazione contadina e forse con il contributo di qualche prete, ma tutto rimase come prima.
5 – Un altro aspetto dell’attività e della personalità di Bettino Ricasoli, che come si ricorderà ha trovato molti riferimenti nei racconti dei contadini, è quello – sembra che la definizione sia dello stesso Bettino – dell’uomo d’"affari”. Anche su questo aspetto, sul quale esiste un ampio e documentato saggio di Giuliana Biagioli (V.N.18), sembra utile qualche riflessione.
Anzitutto è da rilevare che nella memoria contadina il Ricasoli uomo d’affari emerge nettamente sul Ricasoli uomo politico, malgrado quest’ultimo sia storicamente di gran lunga più importante; tuttavia queste memorie riguardanti il Barone “nel privato” possono bene spiegare molti tratti del Barone “pubblico”, delle sue concezioni politiche e sociali.
Il ritratto di Bettino uomo d’affari è quello di un uomo teso ad accrescere con tutti i mezzi e con implacabile determinazione il suo patrimonio, senza molti riguardi, per non dire alcun riguardo, per le difficoltà causate a coloro che – nobili o non nobili- erano coinvolti nelle sue operazioni. La Biagioli ha documentato che a 21 anni Bettino prese in mano una situazione patrimoniale molto difficile a causa della cattiva gestione prima del padre Luigi, poi della madre Elisabetta: «L’attivo netto era di circa 860.000 lire: una fortuna ancora non indifferente, ma che due pericoli minacciavano di assottigliare ulteriormente: i diminuiti redditi delle fattorie e soprattutto la gestione patrimoniale con le spese che superavano quasi ogni anno le entrate» (V. N.19). Egli si impegna nella gestione delle fattorie in maniera che non ha uguali e si stabilisce in permanenza a Brolio. Annota Sestan: «Brolio non è per lui il luogo del riposo, della sconfitta, dello sconforto, dell’inazione. Tutt’altro; e non solo nel volgere degli anni verso la vecchiaia, ma fin dal fiorire della giovinezza, e in netto contrasto con la gioventù dorata fiorentina degli anni ’30. In quella ottantina di casate nobili fiorentine, fra le quali aveva certo posto non ultimo quella del Ricasoli, tutte erano costituite da rentiers fondiari, da gentiluomini di campagna, ma viventi ordinariamente in città. Tutte o quasi tutte avevano villa o ville più o meno sontuose in campagna; ma vi soggiornavano ordinariamente per qualche settimana o qualche mese nella stagione della vendemmia o della caccia... Ma nessuno, nemmeno in caso di ristrettezze economiche, avrebbe rinunciato alla vita di città, si sarebbe seppellito per anni interi in una villa per magnifica che potesse essere. Non c’era che un altro nobile fiorentino che, quattro anni prima del Ricasoli, aveva eletto la villa dimora permanente: ed era Cosimo Ridolfi» (V. N. 20).
Ma Ricasoli non s’impegna soltanto nella gestione diretta delle sue fattorie – fra cui quella di Barbanella in Maremma, dove tenta la grande coltura meccanizzata – ma s’interessa anche nelle costruzioni stradali e ferroviarie e in speculazioni finanziarie che dopo l’unità d ’Italia prevalgono, per i profitti conseguiti, sui redditi agricoli. Alla sua morte l’attivo patrimoniale netto era di lire 4.899.000, cifra valutata per difetto, di cui lire 2.600.000 in beni immobili e lire 2.168.000 in azioni ed obbligazioni, quasi sei volte l’attivo del 1830 che era di lire 860.000. Si trattava, per i tempi, di una grande fortuna (V. N.21) che fu conseguita, se così si può dire, in maniera spettacolosa, dato che allora il processo di arricchimento era di norma assai lento.
Le attività economiche, fra le quali cospicua quella nel campo mobiliare, pongono dunque il Ricasoli nella sfera del comportamento “borghese” e lo differenziano nettamente dal comportamento da rentiers fondiari di quasi tutti i nobili toscani. un comportamento che non fu seguito nemmeno dagli eredi del Barone di Ferro che, a detta degli stessi mezzadri, furono delle “brave persone” che si lasciarono ingannare da fattori ed amministratori. Del resto il Ricasoli non amava e soprattutto non stimava i nobili e trovava in essi, e in particolare in quelli fiorentini, come documenta Sestan, “gran fango” (V. N.22).
II comportamento “borghese” di Bettino non sempre va d’accordo con l’ideologia e le finalità manifestate nelle lettere e nei discorsi, dai quali sono state tratte delle belle pagine di elegia risorgimentale (V. N.23). Ma occorre tener presente l’osservazione di Sestan: con i personaggi ottocenteschi, madidi di sentimentalismo romantico, è sempre difficile trovare la chiave per distinguere ciò che è speculazione genuina, spontanea di sentimenti e passioni, da ciò che genuino non è. Ora non vi è dubbio che nel caso di Ricasoli, come per molti altri protagonisti del Risorgimento, le idealità dichiarate sorreggevano, motivavano e indirizzavano le azioni politiche, ma esse si accompagnavano anche a motivazioni economiche di tipo borghese, che allora non si osava mettere in luce. Ma in Ricasoli le idee in proposito erano chiarissime e la chiave di queste è contenuta in un carteggio relativo al suo tentativo di attuare prima dell’Unità la grande coltura nell’azienda Barbanella di Grosseto:
«Ora siamo in Maremma. Non faremo male... ma è paese limitato e fa parte di paese piccino» (V. N.24). Egli fu dunque consapevole che il limite al successo della sua opera di imprenditore moderno e delle nuove forze produttive di tipo capitalistico che si stavano sviluppando è dato dal paese piccino. Non per nulla è in quegli anni che da una concezione quasi granduchista o comunque federalistica dell’ltalia passò a concezioni unitarie e si mise a capo della lotta per l’annessione della Toscana al Regno d’ltalia. E ciò ingrandisce il paese, allarga il mercato. D’altra parte, raggiunta l’unità, allargato il mercato, cambiò anche la qualità della sua attività imprenditoriale volgendosi verso le speculazioni di carattere finanziario.
Vi è di più. Come uomo di governo quando si batteva a favore della legge sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico, forse pensava in cuor suo di trarne qualche vantaggio, come in realtà poi fece, partecipando all’acquisto di quei beni. È un’ipotesi maligna? Può darsi, ma è ben chiaro che quasi tutti gli uomini d’affari, quando si presenta loro una nuova situazione o la possibilità di cambiare le situazioni, vedono e salutano tali occasioni in termini di possibilità di profitto.
È una colpa? Forse il Ricasoli, uomo di profondi sentimenti religiosi, l’avrebbe sentita tale, se fosse stato capace di scrutare nel fondo della sua anima.
6 -Dalle memorie contadine così raccolte e dalle ampie e documentate analisi degli storici emerge un Barone di Ferro che domina in assoluto la scena della campagna chiantigiana, un assoluto che forse avrebbe voluto estendere nel campo sociale, dove si doveva scontrare con altri personaggi di grande temperamento.
È nel microcosmo chiantigiano che alcuni caratteri del Ricasoli politico nazionale appaiono evidenti. Il barone è isolato nei confronti dell’aristocrazia dalla quale proviene e della quale continua formalmente a far parte. A differenza della stragrande maggioranza degli aristocratici toscani del tempo, e anche dei familiari e dei suoi eredi che amano gli ozi e il tranquillo mondo della mezzadria ottocentesca, egli ha la mente, il cuore e l’energia dell’uomo d’affari e dell’uomo borghese emergente (V. N.25).
Di fronte a lui, nella campagna chiantigiana, vi sono soltanto anonimi preti e una folla di contadini in stato di soggezione. Preti che considerava quasi come suoi dipendenti per il feudale istituto del “patronato” sulle parrocchie che come abbiamo ben visto in pratica gli consentiva di scegliere e nominare i parroci. Contadini dei quali vuole migliorare le capacità professionali e la cultura scolastica rinsaldandone però, al tempo stesso, la soggezione al proprietario. Il Barone che ha tanto contribuito all’unificazione dell’Italia sembrava non capire, in linea in questo caso con tutti gli altri moderati toscani, che per “fare” l’Italia non bastava l’unificazione politica, ma sarebbe stata necessaria l’emancipazione delle sterminate moltitudini contadine che dalle lotte per l’Unità furono assenti o in posizione avversa. E i contadini non solo non amano il padrone Bettino ma, novelli Dante, lo spediscono all’inferno. A lui preferiscono di gran lunga i padroni codini, paternalistici e assenteisti: si tratta di una preferenza che sicuramente è dettata da ragioni di convenienza (gli assenteisti lasciano ai mezzadri, malgrado la delega ai fattori, più libertà nel lavoro e nella vita), ma che può anche spiegarsi con l’arretratezza politica dei contadini, arretratezza della quale essi potranno liberarsi solo dopo molti decenni. Ma forse non è proprio così: quali prospettive di migliorare le loro condizioni i contadini potevano ricavare da Ricasoli e in genere dalla minoranza, pur variegata e articolata, che fece l’Unità d’Italia? Nessuna prospettiva. Semmai poteva esserci fra i mezzadri il giustificato timore di un peggioramento delle loro condizioni con la trasformazione, vagheggiata da alcuni moderati, della mezzadria in “conto diretto”, in conduzione cioè della terra con manodopera salariata (V. N.26). E allora non ha senso rimproverare ai contadini la loro mancata partecipazione alle lotte per l’Unità d’Italia; del resto i moderati toscani non solo non la chiesero, ma la respinsero nel fondato timore di una rivoluzione sociale (V. N.27).
Note
1 Le relazioni sono contenute in due volumi curati dalla Biblioteca Storica Toscana: Agricoltura e società nella Maremma Grossetana dell’800, Giornate di studio per il centenario ricasoliano, prefazione di Giovanni Spadolini, Leo S. Olschki, Firenze, MCMLXXX (1980); Ricasoli ed il suo tempo. Atti del convegno internazionale di studi ricasoliani (a cura di Giovanni Spadolini), Leo S. Olschki, Firenze, MCMLXXXI (1981).
2 L ’ultimo saggio, che riprende anche i precedenti, è pubblicato in un ricco volume: G. SPADOLINI, Firenze capitale. Gli anni di Ricasoli, Le Monnier, Firenze, 1979.
3 G. SPADOLINI, Prefazione a:” Agricoltura e società nella Maremma Grossetana..., cit., pag. VII.
4 PISCHEDDA, Appunti ricasoliani, in “Problemi dell’unificazione italiana”, Modena, 1963.
5 C. P AZZAGLI, Prime note per una biografia del barone Ricasoli, in “Ricasoli ed il suo tempo”, cit.
6 SESTAN, Ricasoli e Brolio, in “Ricasoli ed il suo tempo”, cit.
7 In proposito è da rilevare un fatto singolare: per i nostri grandi contemporanei i futuri storici potranno valersi di materiale più ricco di quello disponibile per Ricasoli e per gli uomini del suo tempo (e ancor più per quelli dei tempi precedenti), ma non di una masse così abbondante di lettere dato che oggi l’uso del telefono non rende più necessario scrivere per rivolgersi ad amici o ad altri per comunicare su questioni di ordinaria o di straordinaria importanza, riservate o pubbliche. Le lettere costituiscono non solo una fonte dalla quale è possibile trarre notizie per meglio capire gli avvenimenti, ma anche uno strumento per scavare in profondità nel carattere del personaggio che scrive. Gli autori di lettere private (e anche Bettino Ricasoli) non pensavano certo che queste sarebbero state un giorno pubblicate o comunque sarebbero servite per lo studio della loro personalità e quindi in tali scritti appaiono meno controllati e più sinceri che nei discorsi e scritti ufficiali; l’autocontrollo può semmai riguardare solo le persone alle quali le lettere sono destinate.
8 noto che l’uso delle fonti orali non è in contrapposizione alle fonti archivistiche e scritte ma che può anzi, opportunamente integrato con queste, contribuire alla ricerca della verità. Il mio lavoro era poi semplificato dal fatto che l’obiettivo era soltanto quello di avere un’idea di ciò che oggi si chiama l’opinione pubblica, un’opinione formata da una classe che comprendeva oltre il 70% della popolazione attiva di tutto il paese della quale allora non ci si curava di raccogliere alcuna informazione.
9 La fedele trascrizione della narrazione orale del testo linguistico originale, in questa e nelle altre narrazioni (le mie integrazioni e i chiarimenti sono posti fra parentesi quadre) ha il fine di conservare tutto il colore e l’efficacia del vernacolo toscano, e anche quello di evitare, con la mia “traduzione” in lingua italiana, la deformazione più o meno grande dei fatti e dei sentimenti contadini. Fortunatamente, trattandosi di vernacolo toscano per il lettore non sarà faticoso capirlo.
anche da osservare che le narrazioni trascritte presentano un vernacolo assai diverso secondo l’età delle persone, il grado di istruzione, i contatti con il mondo esterno e anche il territorio di appartenenza poiché, pur in uno spazio assai piccolo qual è il Chianti, sussistono differenze notevoli; per esempio fra Radda – dove molti parlano ancora un italiano arcaico – e la parte del Chianti più vicina alle città di Siena e di Firenze in cui, specialmente fra i giovani, si parla un italiano moderno e corretto.
Il vernacolo, anche nelle campagne, stà scomparendo rapidamente e ciò rappresenta un fattore sociale molto positivo, poiché non va dimenticato che esso era (ed è ancora dove rimane) una delle cause della condizione di inferiorità dei contadini e delle classi popolari in genere nei confronti degli altri ceti sociali. Per quanto mi riguarda non ho nessuna nostalgia del vernacolo. Tuttavia mi sembra che i testi trascritti (ma qui non ho alcuna competenza professionale) abbiano un loro valore documentario anche dal punto di vista strettamente linguistico.
10 Le cavalcate e le bagnature con la figlia Elisabetta sopravvissuta (non si capisce perché essa nella memoria dei contadini è “mutola") sono documentate dallo stesso Ricasoli in una lettera alla stessa figlia nella quale ricorda: «le nostre gite solitarie per i boschi sulle nevi, a tempo di neve e di pioggia, a tempo di luna e perfino a guazzo per i fiumi... Scherma, moto a cavallo: ecco i tuoi ornamenti degni di un Ricasoli”.
Per quanto riguarda i figli è vero che, fatta eccezione per Elisabetta, morirono in tenera età (un maschio e due femmine), ma sembra per malattie infantili, allora incurabili.
11 Su questo si può far riferimento al saggio di C. PAZZAGLI (op. cit., pagg. 265-270) nel quale è documentata la reazione del barone quando i mezzadri non seguivano le sue prescrizioni non solo nel lavoro dei campi, ma anche nel comportamento familiare: «Di solito essa si manifestava nel modo più duro ed autoritario, dall’inasprimento dei controlli e dalla diminuzione degli aiuti, alla minaccia del licenziamento in tronco».
Ma Bettino Ricasoli sapeva anche sottoporre i mezzadri ad un sottile gioco psicologico come è dimostrato da una famosa lettera, riportata dal Pazzagli (op. cit., pag. 168), alla figlia nella quale dà istruzioni su come trattare con una famiglia di mezzadri che dimostra “mancamenti” verso il proprietario. Giustamente il Pazzagli mette in evidenza che il fatto non è isolato e che ciò documenta «in modo esemplare lo stato di profonda subordinazione, morale e psicologica, oltre che economica, nel quale la possidenza riusciva a tenere la classe dei mezzadri facendo perno sui rapporti interpersonali caratteristici delle società rurali mezzadrili».
Malgrado questo nel 1872 a Brolio vi fu uno sciopero contadino poiché, scrive E. SESTAN (op. cit., pag. 418), quel suo modo di concepire la tenuta di Brolio come una specie di conturbernio religioso-economico-sociale non reggeva più. Il barone scrisse (Carteggio 531-532) che «quella turba di lavoranti si pose in istato di rivolta, recandomi un affronto che nessun padrone ha mai ricevuto l’uguale e che neppure dalla schiuma dei lavoranti che popolano la Maremma si è mai ricevuto da quei padronati».
12 Che il consenso non fosse solo formale è detto dallo stesso Bettino Ricasoli in una sua lettera (Carteggio V, 260, riportato da E. SESTAN, op. cit., pag. 417) in cui definisce un vero “malanno” il parroco di San Marcellino in Chianti e aggiunge che è «gran peccato mio che ce lo nominai».
13 E. SESTAN, op. cit., pag. 417.
14 E. SESTAN, op. cit., pag. 414.
15 da rilevare che nessun ricordo è rimasto di quelli che si potrebbero chiamare i corsi d’istruzione o, meglio, di “educazione sociale” che forse erano tutt’uno con le prediche di carattere religioso. Probabilmente, per le stesse ragioni relative alla predicazione religiosa, esse non ebbero alcuna influenza sulla “cultura” contadina. Rimangono però interessanti le concezioni educative del Ricasoli, così come sono state messe bene in evidenza da C. Pazzagli (op. cit., pag. 265): Ricasoli parte dall’idea che «uomini vili per nascita non ve ne sono» e pertanto dà istruzioni e “precetti” per elevare moralmente e materialmente i mezzadri; ma poi le sue idee rimangono perfettamente in linea con i suoi tempi: per il Barone il «mezzadro deve seguire la guida del padrone» e «contentarsi del proprio stato».
l6 C. PAZZAGL1, op. cit., pag. 271.
17 M.R. CAROSELLI, Critica alla mezzadria di un vescovo del ’700, Giuffre, Milano, 1963, pag. 103.
18 G. BIAGIOLI, Vicende e fortune di Ricasoli imprenditore, in “Agricoltura e società...”, cit., pagg. 77-102.
19 G. BIAGIOLI, op. cit., pag. 82.
20 E. SESTAN, op. cit., pagg. 393-394.
21 Per avere un’idea del valore attuale di tale patrimonio basterà tener presente che il reddito annuo di una unità lavorativa era allora nel Chianti intorno a 290 lire all’anno (cfr.R. GIACINTI, L ’economia di un podere chiantigiano dal primo Ottocento all’Unità d’ltalia / 1816-1864, Rivista di Storia dell’ Agricoltura, n. 1,1974). Un mezzadro, dunque, se avesse potuto risparmiare tutto il suo reddito avrebbe impiegato ben diciassette secoli per raggiungere tale cifra.
22 E. SESTAN, op. cit., pag. 398.
23 Fra tutti A.C. Jemolo, con la sua autorità, è particolarmente elogiativo nei confronti di Ricasoli. Conviene ricordare le sue parole: «Con Ricasoli saliva alla responsabilità di governo la più bella tradizione di aristocrazia intellettuale, di classe dirigente conscia che il potere è onere e dovere, responsabilità di fronte a Dio e agli uomini, che l’ltalia avesse mai espresso e ad un tempo quanto di più eletto v’era a rappresentare le correnti di pensiero, di preoccupazioni culturali, di esaltazione dell’intelligenza, che la Toscana alimentava da secoli (A.C. JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi Editore, Torino, 1948, pagg. 272-273).
24 G. BIAGIOLI, op. cit., pag. 91.
25 In verità dalle sue lettere e anche dagli atteggiamenti formali nei rapporti con le persone Bettino Ricasoli appare un aristocratico che tiene molto all’antica nobiltà della sua famiglia. Questo carattere non è però in contraddizione con il suo “spirito” borghese e in genere con quello dei borghesi. Basterà ricordare che in quel tempo, ma anche molto prima e dopo, non pochi uomini ascesi nella scala sociale attraverso la mercatura e le speculazioni hanno cercato e, molto spesso ottenuto, di entrare a far parte dell’aristocrazia, specialmente attraverso i matrimoni. E questo non solo per la ricerca di una posizione sociale onorata, ma anche per far meglio gli affari. Per tutti credo che sia in proposito esemplare il caso di Mastro Don Gesualdo di Giovanni Verga, che è un personaggio reale non solo perché appartiene alla letteratura verista. Bettino non aveva certamente bisogno di arrampicarsi per vantare la nobiltà della sua famiglia poiché la sua era davvero una delle più antiche. E questo non andava allora a svantaggio dell’uomo d’affari, anche se tale qualità era molto rara fra i nobili toscani.
26 Credo di aver dimostrato in un mio lavoro (cfr. I precedenti storici, in «I contadini toscani nella Resistenza», Leo S. Olschki, Firenze, 1976, pag. 11-21) che i mezzadri toscani fino ai primi anni del Novecento avevano livelli di vita relativamente migliori di quelli degli altri lavoratori essendo loro assicurato, attraverso i meccanismi della mezzadria, il livello di sussistenza, anche se nulla in più di quel livello; i loro grande timore era di essere costretti a passare nella categoria, allora poverissima e che spesso soffriva la fame, dei “pigionali” cioè dei braccianti. Il propugnatore della trasformazione della mezzadria in “conto diretto” era Cosimo Ridolfi.
27 Cosimo Ridolfi in una sua lettera a Luigi Carlo Farini, manifestava la necessità di tenere i contadini lontani dalle lotte, perché in caso contrario «chi frenerà le intemperanti voglie delle masse trionfatrici, chi metterà limiti alle loro esigenze, e come impediremo che la libertà trasmodi in licenza?» (cit. da G. MORI, La Valdelsa dal 1848 al 1900, Feltrinelli, Milano, 1957, pag. 15).