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 2015  agosto 26 Mercoledì calendario

La drammatica storia di Ulet Mohamed, morto a 15 anni dopo essere stato rapito in Libia e torturato dai trafficanti. Era su un gommone recuperato da Medici senza Frontiere: «Lasciato senza acqua né cibo perché si era ribellato ai lavori forzati». Altri 300 tratti in salvo

Ulet Mohamed ripeteva solo due parole: «Mamma» e «Coca Cola». Ogni tanto, perdeva conoscenza. E poi riprendeva in modo confuso: «Mamma, Coca Cola, mamma». Per un giorno e mezzo, Medici senza frontiere hanno curato le terribili ferite sul corpo di questo quindicenne somalo salvato con 300 compagni su un gommone malandato. «I suoi amici hanno raccontato che era stato picchiato e torturato prima della partenza dalla Libia, dove era stato costretto ai lavori forzati», spiega Francesca Mangia, che ha assistito Ulet nella straordinaria clinica galleggiante che è diventata la nave Dignity I di Medici senza frontiere. «Lunedì sera, sembrava essersi ripreso. Ha chiesto di vedere il mare. Ma appena uscito è svenuto». E questa volta non c’è stato nulla da fare. Ulet Mohamed è morto a metà strada fra Malta e Augusta. Mancavano una manciata di minuti alle undici.
Così, la storia di questo ragazzo somalo è già il simbolo dell’ultima drammatica traversata. Mentre nel Canale di Sicilia le operazioni di soccorso continuano. E la centrale operativa della Capitaneria di Porto, a Roma, aggiorna il bilancio dei sopravvissuti. Altri 120 sono stati salvati su un gommone fermo a 40 miglia a Nord delle coste libiche. «Su quelle imbarcazioni ci sono sempre più bambini e ragazzi che viaggiano da soli», dice Loris De Filippi, il presidente di Msf Italia. «Fino a due anni fa, quei minori salvati in mare li ritrovavamo poi nelle campagne di Cassibile, di Rosarno, di Pachino, sfruttati dai caporali. Oggi, quei ragazzi arrivano sui barconi dopo aver già vissuto l’esperienza della schiavitù». Quei ragazzi vengono rapiti dai trafficanti di uomini, che chiedono poi un riscatto. Anche Ulet era stato rapito. I suoi compagni raccontano che si era ribellato. «Per questo era stato anche torturato – racconta Francesca Mangia – poi l’avevano lasciato senza acqua, né cibo». E quel ragazzino minuto si era ammalato. Accadeva tre settimane fa, dice l’autopsia del medico legale incaricato dal procuratore di Siracusa. Il referto parla di «edema polmonare acuto». Non c’è stato nulla da fare. «Le violenze avevano anche determinato pesanti infezioni – spiegano dalla nave Dignity – abbiamo davvero fatto di tutto, le condizioni del ragazzo erano migliorate, ma poi il suo cuore non ha retto». Anche Save the children lancia l’allarme per le sevizie sui bambini e i ragazzi in Libia. «Dall’inizio dell’anno sono arrivati almeno 7.600 minori non accompagnati, in maggioranza eritrei, somali e di altri paesi dell’Africa sub-sahariana o occidentale: quasi sempre sono in condizioni critiche», spiega Raffaela Milano.
Un sedicenne partito dal Senegal ha lavorato sei mesi in Libia: «Nei campi ero costretto a raccogliere per tutto il giorno una pianta spinosa che mi ha lasciato ferite ovunque nelle mani e nelle braccia», ha raccontato agli operatori di Save the children. «La notte ci picchiavano perché non scappassimo». Un altro sedicenne del Senegal è stato sequestrato in Libia: «Mi bastonavano due volte al giorno, volevano un riscatto di 1000 dinari». Sono tante le storie di disperazione.
«Adesso – dice Francesca Mangia – spero che Ulet trovi finalmente pace. Ma non è ancora così. Ad Augusta, non si è trovato posto per seppellirlo». Il suo corpo martoriato è stato sistemato temporaneamente dentro una cella frigorifero. In attesa che da qualche parte, in Sicilia, si trovi una sepoltura.