La Stampa, 26 agosto 2015
Eugene Francis Fama, premio Nobel per l’Economia nel 2013, racconta cosa si cela dietro la caduta dei listini del Dragone: «Quello che sta accadendo in Cina ha un rischio politico ancora prima che finanziario, la popolazione è diventata più ricca in questi ultimi venti anni, ed ora chiede più libertà». L’economista non crede poi che ci sia una ripresa in atto: «Non ripongo troppa fiducia nelle statistiche. In Usa le misure straordinarie hanno prodotto, in certi casi, effetti opposti a quelli sperati. Guardiamo poi all’Europa, e ai rischi legati all’invecchiamento della popolazione e alla questione dei migranti, l’Italia ne è un esempio»
«Quello che sta accadendo in Cina ha un rischio politico ancora prima che finanziario, la popolazione è diventata più ricca in questi ultimi venti anni, ed ora chiede più libertà». A raccontare cosa si cela dietro la caduta dei listini del Dragone è Eugene Francis Fama, premio Nobel per l’Economia nel 2013, e professore dell’Università di Chicago, il quale dubita che Europa e Stati Uniti abbiano gli strumenti per far fronte a una nuova crisi globale.
Professore, qualcuno parlava di tempesta perfetta sino a due giorni fa, poi ieri si è assistito al recupero delle Borse europee e americane, e sembra tornata la fiducia, cosa sta succedendo?
«Innanzi tutto mi lasci dire che ciò che avviene sui mercati finanziari del Vecchio continente e degli Usa, ha in termini ampi, poco a che fare con quello accade in Cina».
Però ieri se non fosse intervenuta la People’s Bank of China le Borse occidentali avrebbero seguito il corso di quelle asiatiche.
«Il rallentamento della Cina ha effetti immediati sul resto del mondo. Il punto è che molte economie del pianeta, come quelle avanzate, si stanno accorgendo di essere in una posizione non più sostenibile».
Si riferisce a quella che viene chiamata «entrata in correzione» dei mercati?
«Non parlerei di “correzione”, piuttosto di crescita debole, o mancata crescita in alcuni casi, di debiti pubblici non più sostenibili, e di governi hanno fatto promesse che non possono mantenere».
Guardando gli indicatori però sembra che la ripresa sia in atto.
«Non ripongo troppa fiducia nelle statistiche. In Usa le misure straordinarie hanno prodotto, in certi casi, effetti opposti a quelli sperati. Guardiamo poi all’Europa, e ai rischi legati all’invecchiamento della popolazione e alla questione dei migranti, l’Italia ne è un esempio. Sono situazioni non più sostenibili».
Quello che sta accadendo in Cina quindi non la preoccupa?
«Tutt’altro. Pechino ha permesso al capitalismo di entrare nel Paese oltre venti anni fa, l’economia nazionale è cresciuta velocemente e la popolazione è diventata più ricca, anche grazie alle Borse. Ora chiede al governo cinese più libertà, più accesso ai capitali, e più flessibilità di azione finanziaria. Il punto è che il Partito comunista cinese non può e non è in grado di concederla».
Una sorta di mobilitazione finanziaria del popolo?
«Quello che sta accadendo ha un significato politico assai rilevante e rischioso».
Però il calo degli Emergenti è una conseguenza di quanto accade in Cina.
«I mercati emergenti ci hanno abituato ad altalene. Occorre però dire che quanto sta accadendo in quelle economie dipende anche dal calo del greggio a sua volta dovuto all’aumento veloce dell’offerta. Gli Usa da importatore netto stanno diventando esportatori».
Rischiamo di assistere a una nuova Lehman Brothers?
«Chi può dirlo, capita che i cali dei mercati finanziari precedano recessioni economiche».
Però questo volta abbiamo gli strumenti per evitare una crisi?
«Non ne sarei così sicuro».