Corriere della Sera, 26 agosto 2015
Le analisi e le preoccupazioni di Ray Dalio, lo «Steve Jobs degli investimenti»: «Vorrei che gli italiani guardassero alla loro situazione con calma, come uno che guardi la propria diagnosi medica». L’italo-americano che ha fondato e che guida Bridgewater, il più grande «hedge fund» al mondo – circa 200 miliardi di dollari in gestione – pensa che l’Europa sia minacciata da una mancanza di comprensione, un’impazienza che può generare estremismo politico, una tragedia. Tra Pil, debito, crescita e corruzione
Ray Dalio è tanto influente sui mercati quanto assente dalle cronache. Nel 1975 ha fondato e oggi guida ancora Bridgewater, il più grande «hedge fund» al mondo con circa 200 miliardi di dollari in gestione. Ma, come ammette lui stesso, «non parlo quasi mai in pubblico perché l’intrattenimento non mi interessa». È uno degli investitori finanziari che ha guadagnato di più nella storia ma oggi questo italo-americano di 66 anni, definito «lo Steve Jobs degli investimenti», confessa una preoccupazione: «Vorrei che gli italiani guardassero alla loro situazione con calma, come uno che guardi la propria diagnosi medica».
Cosa ci leggeremmo?
«Credo che la più grave minaccia oggi in Europa sia una mancanza di comprensione, un’impazienza che può generare estremismo politico. Ma l’estremismo non può cambiare le leggi dell’economia, può solo peggiorare le cose. Vorrei invece che gli italiani restassero calmi, freddi nell’analisi. Per esempio, nell’affrontare la questione delle riforme».
Ma il debito non ha neanche iniziato a scendere. Sono anni che gli italiani stringono la cinghia, e sembra inutile. È dura chiedere altri sacrifici in nome riforme, non trova?
«Le risposte facili non esistono. A un certo punto gli italiani dovranno ridurre i loro debiti in proporzione al loro reddito, e tagliare i debiti significa tagliare la spesa oppure fare default. Entrambi questi scenari sarebbero molto dolorosi. Il solo modo di migliorare la situazione è far salire i redditi. E nelle riforme strutturali c’è moltissimo potenziale. D’altra parte i Paesi che hanno avuto i migliori tassi di crescita non sono i più efficienti, sono quelli che hanno scovato i loro impedimenti e li hanno ridotti. E un Paese come l’Italia ha molti impedimenti e aree dove c’è enorme potenziale per migliorare».
Ha degli esempi?
«Per qualunque Paese l’impatto più profondo sul tasso di crescita viene dal costo dei suoi lavoratori sul mercato mondiale, corretto per la quantità di tempo che questi si prendono fuori dal lavoro. Devi stimare quante ore al giorno, quanti giorni alla settimana e quante settimane all’anno le persone lavorano. E a quanti anni di carriera hanno. È un grande indicatore, correlato al 63% con il tasso di crescita. E l’Italia, secondo come lo si calcola, è il secondo o terzo Paese più caro al mondo. Lo è in gran parte a causa del tempo che la gente si prende fuori dal lavoro. Per questo i lavoratori italiani risultano dell’83% più cari di quelli degli Stati Uniti per esempio, tenuto conto dei giorni e anni di attività effettiva. Se si guarda alla durata delle vacanze, in Italia sono 5,9 settimane l’anno e negli Stati Uniti 3,3».
Non dirà che se la ripresa è debole, è colpa del tempo libero.
«Non solo. Se guardi all’età della pensione, in Italia è al 79% dell’aspettativa di vita e negli Stati Uniti all’87%. E vorrei mostrare altri indicatori che abbiamo elaborato: i Paesi nei quali la spesa pubblica è più piccola e non ci sono molti trasferimenti, tendono a crescere più in fretta dei Paesi nei quali è vero il contrario. E questo lo si vede nella quota dello Stato nell’economia. In Italia è il 51% e il 28% è fatto da trasferimenti alle persone. Dopo la Francia, è la percentuale più alta al mondo. Poi ci sono i dati sulla rigidità del mercato del lavoro: è il Paese dove assumere e licenziale è più difficile».
Ma di quando sono i suoi dati? In Italia abbiamo portato l’età della pensione è 66 anni e da marzo sono partiti i contratti flessibili del Jobs act.
«Non sto costruendo un argomento per dire che l’Italia finirà male. Voglio solo mostrare come può migliorare. Nelle riforme c’è moltissimo potenziale, non c’è modo di scappare alla più semplice delle realtà: nel mondo di oggi bisogna essere produttivi, perché nel lungo periodo puoi spendere solo tanto quanto produci».
Quali altri indicatori avete prodotto?
«Ci sono statistiche che guardano alle attitudini verso il lavoro o la concorrenza. Per esempio l’Italia è uno dei Paesi nei quali la frase ‘il duro lavoro porta al successo’ mostra i livelli più bassi di approvazione. Invece la frase ‘la concorrenza è dannosa’ ha uno dei tassi più alti. Per non parlare delle statistiche sul peso della burocrazia, dove l’Italia è terza al mondo. O l’indice sulle regole nelle costruzioni. Oppure la correlazione al 58% fra i livelli di corruzione e la caduta del tasso di crescita. E nel rispetto e applicazione della legge, l’Italia è la peggiore fra le 20 principali economie. Quello che faranno gli italiani, lo decideranno loro. Voglio solo che ne siano informati».
Sta dicendo che se questo Paese così indebitato non cambia finisce come in Grecia?
«Guardo solo alle statistiche di salute economica e dico che, nelle circostanze attuali, per il prossimo decennio proiettiamo un tasso di crescita di circa meno 0,4% ogni anno».
Cosa significa per la sostenibilità del debito?
«Quel meno 0,4% l’anno si compone di un meno 0,3% dato dal declino della popolazione in età di lavoro e di un meno 0,1% in produzione per persona occupata. Un livello di crescita del genere significa che in Italia le condizioni generali nei prossimi dieci anni resteranno più o meno le stesse o peggioreranno un po’. La disoccupazione, specie quella giovanile, non sarà risolta e avremo una o due generazioni di persone che non hanno mai avuto lavoro. Non so cosa ciò voglia dire per la politica, ma tradizionalmente queste situazioni portano impazienza e estremismo. La Grecia ne è un esempio. Ma queste sono stime in assenza di grandi riforme strutturali. Con quelle, tutto andrebbe molto meglio».
Può dare l’impressione di parlare così perché ha degli obiettivi in un mercato come quello del debito italiano.
«Si dimentichi di me e cerchi di capire cos’è che rende sana un’economia. Non c’è nessuna minaccia nell’istruzione e anche il buon senso a volte è educazione. Non ho modo di fare dei guadagni mostrandovi le statistiche e non sto cercando di guadagnare. Io vengo dal nulla, non avevo denaro, ne ho guadagnato e ora sto donando più di metà di quello che ho. Non sto parlando per arricchirmi, non mi preoccupo di diventare più ricco. Quello di cui mi preoccupo, è di evitare tragedie economiche che sono evitabili. Spero che gli italiani comprendano i fattori che portano la salute economica».
«Tragedia» è una parola impegnativa. Teme che la fragilità italiana finisca per distruggere l’integrazione europea?
«Mi preoccupo che possa creare frammentazione politica e sociale, che può prendere la forma di un antagonismo con altri Paesi, con la Germania, o di un antagonismo interno fra destra e sinistra. Questo a sua volta può portare a decisioni politiche peggiori e alla tragedia».
Molti italiani danno alla Germania la colpa dell’austerità. È giusto?
«Il principio in Germania è che non possono esserci trasferimenti fra Paesi di denaro dei contribuenti. Ogni Paese deve prendersi cura di sé e questo principio non è negoziabile. Per questo quando diciamo che c’è troppa austerità, non credo che i tedeschi se ne preoccupino. Si preoccupano per chi paga le conseguenze dell’austerità o della sua assenza. Se gli italiani sono in grado di cavarsela da soli, per i tedeschi non c’è alcun problema».