Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2015
L’ennesimo tonfo della Borsa cinese trascina con sé i mercati di tutto il mondo. Il governo di Pechino non interviene e Shanghai perde l’8,5%. Milano -5,96%, Wall Street -3,94%. È stata una seduta da panic selling, all’insegna dell’emotività, con volumi in forte aumento rispetto alla precedente settimana. La volatilità è tornata su livelli che non si vedevano dai tempi del fallimento di Lehman Brothers, nell’estate del 2008. Crolla il petrolio mentre sale l’euro
L’incubo Cina non è (ancora) finito. Ieri mattina gli investitori europei – molti dei quali rientrati dalle vacanze – hanno dovuto fare i conti con l’ennesimo tonfo della Borsa cinese: Shanghai ha perso l’8,5% annullando i guadagni messi a segno nel corso del 2015. Ci si aspettava una mossa forte da parte della People’s Bank of China (PBoC) nel week end per contrastare il buco nero della settimana precedente (-13%). Ma niente. Nel corso della seduta l’istituto ha provato a mettere una toppa – aprendo anche ai fondi pensione la possibilità di acquistare azioni – ma non è servito a granché.
Sui mercati europei – già provati dall’ultima settimana nera in cui hanno accusato in media un ribasso del 7% – l’Orso ha continuato a farla da padrone. Piazza Affari ha aperto con un calo superiore al 4% per poi dimezzare le perdite a metà seduta. Ma l’apertura shock a Wall Street – con il Nasdaq a -10% e il Dow Jones a -6% – nonostante prima dell’avvio degli scambi, secondo le agenzie di stampa americane, il Nyse abbia invocato la “rule 48”, una sorta di blocco sui prezzi per arginare il panico – ha creato ulteriori tensioni. Il Ftse Mib è arrivato a perdere oltre il 7% chiudendo una giornata convulsa con un ribasso del 5,96%, come non accadeva dal novembre 2011, ovvero dai tempi del contagio in Italia della crisi del debito sovrano europeo che portò lo spread BTp-Bund a 575 punti (mentre ieri ha chiuso a 190 punti con il BTp a 10 anni all’1,9%, “tutelato” dal quantitative easing della Bce ma basso anche per le deboli aspettative di inflazione). In forte ribasso anche le altre Borse europee: Francoforte -4,7%, Parigi -5,3% e Londra -4,6%. Da brividi il bilancio di Atene che ha chiuso con un ribasso del 10,54%, sui minimi degli ultimi tre anni. L’indice Stoxx 600, che fotografa l’andamento dei principali titoli quotati sui listini del Vecchio continente, ha ceduto il 5,39%, che equivale a 411 miliardi di euro di capitalizzazione volatilizzati in una seduta. Le Borse globali hanno perso nella sola seduta di ieri altri 1.500 miliardi di dollari.
Nell’ultimo mese le Borse europee hanno perso il 15%: non si assisteva un calo mensile così corposo dal 2002. È stata una seduta da panic selling, all’insegna dell’emotività, con volumi in forte aumento rispetto alla precedente settimana. La volatilità è tornata su livelli che non si vedevano dai tempi del fallimento di Lehman Brothers, nell’estate del 2008, con l’indice Vix che ha rivisto quota 50 punti. E probabilmente non è un caso che questa forte correzione arrivi in estate. La storia della finanza ricorda annovera numerosi shock estivi. Correva la notte del 15 agosto 1971 quando l’allora presidente Richard Nixon decise di interrompere gli accordi di Bretton Woods del 1944, sulla convertibilità del dollaro in oro. Nell’estate nel 1992 il finanziere George Soros speculò pesantemente contro la sterlina spingendo l’Inghilterra fuori dal Sistema monetario europeo (a cui seguì l’uscita dell’Italia). Qualche estate più tardi (siamo nel 2008) la finanza annovera il più grande crac della storia: il fallimento di Lehman Brothers con un buco da 640 miliardi di dollari.
E il nuovo forte movimento ribassista a cui stiamo assistendo ora è partito l’11 agosto, quando le PBoC ha deciso di svalutare lo yuan, spiazzando gli investitori. I mercati vogliono certezze, vogliono vederci chiaro e questa decisione ha invece eretto un muro di nebbia. Ci si chiede a questo punto di quale entità sia il rallentamento dell’economia cinese – la cui produzione industriale a luglio è scesa ai livelli di sei anni fa – considerando che dalle autorità politiche arrivano stime ballerine (c’è perfino chi sostiene che quest’anno il Pil non crescerà oltre il 3-4%, sebbene, rumour a parte, le statistiche ufficiali continuino a puntare senza tentennamenti sull’obiettivo del +7%). Allo stesso tempo la PBoC sta dando l’impressione di non essere in grado di gestire nel migliore dei modi lo scoppio della bolla azionaria con l’annuncio qua e là, e perlopiù a mercati aperti, di nuove misure che spesso vengono interpretate dagli operatori come mosse disperate piuttosto che forti misure espansive. Gli investitori temono inoltre nuove svalutazioni sul cambio. Anche per questo motivo ieri la Casa Bianca ha esortato la Cina ad aumentare la flessibilità dei tasso di cambio in maniera più rapida, abbandonando una linea dirigista che lascia gli investitori incerti su come posizionarsi, accentuando difatti la preoccupazione e la volatilità.
A questo punto non è da escludre che la PBoC risponda alle aspettative con i fatti annunciando nelle prossime ore – forse già oggi – una forte misura espansiva a sostegno dei mercati. È quello su cui ha puntato ieri sera Wall Street, riducendo (seppur in minima parte) le forti perdite iniziali, sostenuta anche dal recupero del titolo Apple dopo che l’ad del gruppo Tim Cook ha indicato un’accelerazione delle vendite in Cina registrata nelle ultime settimane nonostante i timori per un rallentamento della seconda economia al mondo.
Un forte intervento della PBoC sarebbe l’unico modo per provare ad invertire questa tempesta finanziaria. Perché nella “scatola cinese” della finanza finiscono un po’ tutte le asset class. A cominciare dal petrolio che ieri ha toccato i minimi da 7 anni con il Wti di New York sceso sotto i 39 dollari al barile e il Brent del Mare del Nord sotto i 43 dollari. La caduta del petrolio sta poi creando ripercussioni a cascata sulle valute dei Paesi emergenti che esportano materie prime. Tra le più penalizzate il ringgit malese tornato sui livelli della crisi asiatica del 2008. Sotto forte pressione anche il rand sudafricano che ha aggiornato il minimo storico a 14 dollari. «I mercati si trovano in un circolo vizioso. C’è un’intensa debolezza nelle commodity e sui mercati emergenti, così come ci sono timori per la crescita globale» afferma Nick Gartside, analista di Jp Morgan. La debolezza sui mercati emergenti sta portando – secondo Mark Dowding di BlueBay «a un deterioramento dell’appetito di rischio su scala globale».
Il dollaro si sta apprezzando sulle valute dei Paesi emergenti ma non sull’euro che ieri è tornato a quota 1,17 (per poi scendere a 1,158), livelli che non si vedevano da gennaio. Questo perché sul mercato delle valute si inizia a scontare come altamente improbabile un rialzo dei tassi negli Usa a settembre. Gli economisti di Barclays hanno posticipato dal mese prossimo a marzo 2016 il mese in cui si aspettano una stretta.A conti fatti la turbolenza cinese e asiatica sta impedendo agli Usa di normalizzare la politica monetaria (seppure le condizioni interne glielo consentirebbero). Ma ormai le banche centrali dei Paesi sviluppati fanno fatica ad agire in piena autonomia: stanno pagando l’effetto distorto di una sorta di globalizzazione delle politiche monetarie generato dall’aver mantenuto troppo a lungo i tassi a zero.