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 2014  agosto 27 Mercoledì calendario

Come il metro fu introdotto in Italia

Dimenticate l’euro. Le vicissitudi­ni, i travagli, i pentimen­ti, le discordie, i contrasti, le op­posizioni anche colorite, i rim­pianti, le incertezze le approssi­mazioni e le paure che hanno accompagnato nel 2002 il pas­saggio dalla lira (e in generale dalle monete na­zionali continentali) all’euro sono nulla rispetto ai dibattiti e alle difficoltà incontrati dal metro, allorché agli albori dell’Ottocento iniziò il suo pluridecennale cammino per affermarsi sui competitori e sostituire le disparate e campa­nilistiche misure preesistenti, uniformando fi­nalmente i sistemi non solo d’Europa ma an­zitutto tra i vari Stati italiani.
All’epoca i «no metro» erano per esempio i la­tifondisti, i quali temevano che – misurando con troppa precisione le terre – avrebbero do­vuto pagare più tasse catastali. Erano gli in­dustriali, preoccupati che l’uniformità metro­logica avrebbe reso più facile comparare i pro­dotti e dunque li avrebbe privati di certi mo­nopolii. Erano però anche gli scrittori roman­tici, che si opponevano alla matematizzazio­ne del mondo (per Goethe l’arte era l’opposto dei tecnicismi da ragionieri «che misurano in­vece che sentire»). Erano ancora tanti gover­nanti, timorosi di perdere consenso appog­giando una riforma che almeno all’inizio a­vrebbe messo in difficoltà i commercianti e in genere i sudditi (Cavour stesso, pur favorevo­le al metro, proponeva di introdurlo gradual­mente e solo in città, perché nelle campagne temeva la rivolta popolare...). Erano pure mol­ti risorgimentali, riottosi a portarsi in casa uno strumento «straniero», inventato dai francesi e importato dal Napoleone più imperiale.
Chicche riprese da un’erudita e curiosa «bre­ve storia del metro in Italia» che il ricercatore Emanuele Lugli, 34 anni, lecturer di storia del­l’arte all’università inglese di York, disperde in un volume in uscita per Il Mulino sotto il tito­lo a triplo senso Unità di misura. Triplo per­ché fin dalle elementari abbiamo imparato in effetti che il metro è un’«unità di misura», ma anche perché la sua adozione ridusse pro­gressivamente a «unità» i metodi «di misura» in uso nella Penisola e infine perché tale pro­cesso corse parallelamente e confermò la con­temporanea «unità» politica d’Italia dal punto di vista economicamente e culturalmente ca­pitale delle «misure» (se poi proprio vogliamo, un quarto significato si disvela nel dipanarsi delle pagine del libro: ovvero che la pre­tesa di uniformità e scientificità dei campioni di misurazio­ne è alquanto aleato­ria, ovvero che l’«unità» viene sempre e solo raggiunta «di misura»...).
Comunque sia, il metro costituì per i nostri an­tenati una vera rivoluzione culturale, e non so­lo perché furono gli illuministi rivoluzionari a propugnarne la scelta universale. Si capisce: fin allora le misure erano state legate al corpo (piede, braccio, pollice...), quindi all’individuo, anzi di più: al potente, al padrone, al re. Il «pie­de di Liutprando», adottato in Piemonte e To­scana prima dell’unità, era fatto risalire in mo­do leggendario all’arto fisico del sovrano lon­gobardo. Era il potere politico che dettava leg­ge sulle misurazioni; logico dunque che la Ri­voluzione francese volesse scardinare tale si­stema autoritario e assolutistico per introdur­ne invece un altro più «democratico» e «scien­tifico». Non a caso venne scelto di fondare il cal­colo del metro su una partizione matematica­mente ben definita del meridiano di Parigi; u­no spazio chiaro, fisso, non più sottoposto ai capricci di chicchessia, intangibile e indiscu­tibile, uguale per tutti e ovunque, «democrati­co» appunto. «Il sistema metrico decimale – osserva Lugli – doveva essere l’arma che avrebbe permesso ai rivoluzionari francesi di realizzare l’ordine so­ciale voluto dai philosophes». Fatto sta che il metro, proposto per primo nel 1790 dal mate­matico Auguste-Savinien Leblond, venne di­feso da Talleyrand davanti all’Assemblée Na­tionale e subito dopo l’Académie des Sciences s’incaricò di radunare i più illustri studiosi per elaborare il sistema di misure in modo orga­nico, ovvero interdipendente (il kg è il peso del­l’acqua contenuta in un cubo di un decimetro di lato, e il litro è il suo volume) nonché preci­so: il dibattito sul produrre – e riprodurre in le­ga metallica inalterabile – i campioni-tipo del­le misure costituisce di per sé un’avventura an­siogena e ricca di colpi di scena.
Nel 1793 il metro divenne legge a Parigi, nel 1800 Bonaparte lo confermò come unico si­stema e di lì a poco lo introdusse – insieme ai suoi eserciti – anche in Italia. La restaurazione del Congresso di Vienna promosse il movi­mento inverso; ma fino a un certo punto, do­cumenta Lugli: ché il nuovo metodo era ap­parso assai pratico, ad esempio, nella Lom­bardia dove regnavano 22 tipi di misurazione diversi e dunque il metro rimase comunque nell’uso di moltissimi italiani, soprattutto al Nord, soprattutto in provincia, soprattutto nel­la casta dei «professionisti dello spazio» come ingegneri (i più entusiasti), geometri, geogra­fi, agronomi... Così intorno al 1840, quando ancora dalla Fran­cia partì il rilancio del metro, il Regno di Sar­degna con le sue ambizioni di internazionalità fu tra i primi ad accoglierlo (1845) in Europa. Di lì a diventare il sistema unico della nuova I­talia fu questione di tempo e di compiutezza del Risorgimento (la legge che lo adottava nel nostro Paese è del 1861 [1859 – gda], mentre l’abolizione ufficiale dei vecchi sistemi avvenne il 1° gen­naio 1863), ma non soltanto: «Per tutto l’Otto­cento – nota difatti l’autore – gli italiani si sot­toposero a un meticoloso allenamento collet­tivo per interiorizzare un sistema che trasformò la loro percezione del mondo» (basti pensare all’affinamento prodotto dall’introduzione del millimetro in una cultura che al massimo pre­vedeva precisioni di qualche centimetro). A ta­le educazione non furono alie­ni i cattolici e la Chiesa: al Sud si chiese ai parroci di inserire nozioni sul metro dal pulpito e al catechismo, mentre un certo Giovanni Bosco nel 1849 compilò con successo il li­bretto Il sistema metrico de­cimale ridotto a semplicità.
L’unità di misura insomma era diventata preziosa misu­ra (strumento) di unità na­zionale. E gli italiani si tro­varono talmente all’avan­guardia che fu proprio uno dei nostri, tal Gilberto Govi, a portare a compimento la reda­zione della Convenzione inter­nazionale del metro, firmata a Pari­gi nel 1875 da 17 nazioni. Ma resta il dub­bio se il metro, imposto come fu e custodito nei suoi esemplari dai governi, non abbia alla fine tradito le attese dei suoi creatori illumini­sti: scientifiche o no, oggettive per tutti oppu­re mutevoli da un luogo all’altro, infatti le mi­sure dipendono ancora e sempre dal «potere».