Corriere della Sera, 21 agosto 2015
Joan Roca, ecco come si diventa chef del migliore ristorante al mondo. Nel 1995 la prima stella, nel 2009 la terza, nel frattempo ha inventato il modo per trattenere il fumo nelle molecole di grasso, brevettato un distillatore, servito vino «testurizzato» e portato in tavola olive caramellate appese ai rami di un bonsai. E ha fatto anche innorridire la madre servendole l’ostrica con estratto di terra
Ci sono tre punti fermi nel piccolo mondo di un grande chef. La giacchetta bianca che mamma e nonna gli hanno cucito quando, a nove anni, Joan Roca ha deciso che avrebbe fatto il cuoco. La scuola alberghiera a 500 metri da casa frequentata in sequenza da lui e dai due fratelli minori. E poi il bistrot di famiglia, accanto al quale nel 1986 è nato il suo locale. Trent’anni dopo il «Celler de Can Roca» si è aggiudicato per due volte il titolo di miglior ristorante del mondo secondo la classifica «50 Best Restaurant» (nel 2013 e nel 2015). E Joan è uno chef richiestissimo, con liste d’attesa di 11 mesi. Ma il suo universo resta circoscritto lì, a Girona, tra il quartiere popolare in cui è cresciuto, il locale che poi ha spostato in centro, la casa che si è comprato esattamente sopra, il mercato del sabato in cui va con la figlia. Tutto a poche pedalate di distanza (si muove in bicicletta). Come una volta, quando ai fornelli c’erano mamma Montserrat e nonna Angeleta, papà Josep badava ai clienti e lui giocava tra i tavoli. Mai lontano dalle proprie radici, dunque. «Mi piace la mia città, mi piacciono le mie origini. Non è un caso che io abbia scelto lo stesso mestiere dei miei genitori. E che abbia sempre lavorato con i miei fratelli, uno sommelier e l’altro pasticcere». Come non è un caso che rifiuti categoricamente di aprire altri «Celler» in giro per il mondo, nonostante le continue offerte.
«Il mio ristorante è uno e resta a Girona». Lo dice con un tono secco che non gli appartiene. Le sue frasi, in genere, sono lunghe e morbide. Mentre racconta di sé sorride, gesticola, a volte ti sfiora un braccio con aria bonaria come per condividere un segreto. Ma se gli si chiede di nuove aperture fuori dalla Spagna o di progetti collaterali alla cucina la voce gli diventa più dura. «Rispetto i colleghi che fanno gli imprenditori e che moltiplicano le loro attività, ma non è il mio caso. Io il mio sogno l’ho già realizzato: creare un ristorante meraviglioso. Per continuare a fare bene devo starci dietro e concentrarmi». Chiarito questo punto il viso torna a distendersi. Siamo a Milano, nel backstage del concorso San Pellegrino Young Chef 2015, a cui ha partecipato come giurato. «Ho deciso che avrei fatto il cuoco guardando mia madre, mia nonna e mia zia che cucinavano – racconta —. Me lo ricordo perfettamente quel giorno, mi sono avvicinato e ho detto: “Voglio anch’io una giacca da chef”. Me l’hanno dovuta fare a mano perché non ne esisteva una della mia misura, ero troppo piccolo». Da quel momento non ha più cambiato idea.
La prima stella
Nel 1986, a 22 anni, apre il «Celler» con il fratello Josep addetto ai vini. «Celler vuol dire cantina. Volevo fare la stessa cucina catalana di mia madre ma in chiave moderna». A nutrire le sue ambizioni sono gli incontri con i grandi chef. Santi Santamaria nel 1988, la stagione estiva a «El Bulli» nel 1989. «Grazie a Ferran Adrià ho capito come si rompono le regole, da lui ho imparato che ogni cosa è possibile». Nel 1991 conosce Jacques Pic, nel 1992 parla con Georges Blanc di cottura sotto vuoto. È allora che decide: «Farò alta cucina». Tra una «parmentier di aragosta con trombette dei morti» (ancora nel menu dal 1988) e un «carpaccio di zampa di maiale e porcini» nel 1995 arriva la prima stella Michelin. Nel 2009 la terza. Nel mezzo, Roca inventa il modo per trattenere il fumo nelle molecole di grasso, brevetta un distillatore, serve vino «testurizzato» e porta in tavola olive caramellate appese ai rami di un bonsai. Oggi che è in vetta alla cucina mondiale minimizza: «Io non mi sento il miglior cuoco del mondo, per me nemmeno esiste il ristorante perfetto. Ognuno ha il suo. Se dovessi scegliere io, premierei mia madre». Ah, la mamma. «Quante cose mi ha insegnato. Il mio piatto preferito resta la sua escudella, una zuppa tradizionale con carne, verdura e riso che ci preparava la domenica. Oggi la faccio anch’io ma non sono bravo come lei».
La fortuna di essere in tre
Joan ha sempre cercato la sua approvazione. Ma ha anche saputo agire di testa sua: «Le ho fatto assaggiare tutte le mie creazioni. Quando è toccato all’ostrica con estratto di terra, però, mamma è inorridita. Abbiamo discusso, io ho comunque messo il piatto nel menu. E ho avuto ragione: il successo è stato immediato». Un altro grande riferimento è stata nonna Angeleta. «Lei e il nonno hanno aperto il primo ristorante dei Roca nel 1920. Non dimenticherò mai quando è morta, nove anni fa. Era un martedì. Il giorno dopo io e i miei fratelli (Jordi, il più giovane, è dal 2000 il pastry chef del «Celler», ndr ) dovevamo preparare una cena di gala per festeggiare l’accordo sull’alta velocità firmato da Chirac e Zapatero. Abbiamo fatto il nostro lavoro, anche se eravamo distrutti. I due leader devono averlo notato e sono entrati in cucina per farci le condoglianze. È stato un momento commovente». Un lutto che ha lasciato il segno. «Per fortuna eravamo in tre ad affrontarlo». Ecco. Il punto cardine della vita di Joan è il rapporto con i fratelli. «Te lo dico subito – anticipa —. Non abbiamo mai litigato, tranne quando eravamo piccoli. Sul lavoro non ci sono stati problemi, altrimenti non saremmo qui. Facciamo tutto insieme, anche i nuovi piatti. Il nostro non è solo un mestiere, ma un progetto di vita molto impegnativo».
A caccia di sapori
In effetti tra il ristorante e «La Masia», il laboratorio che raccoglie artisti, musicisti, botanici e creativi internazionali per sviluppare idee da mettere nei piatti, il tempo che resta non è molto. Joan lo usa tutto per la famiglia: «Ogni sera prima di entrare in servizio ceno con mia moglie Anna e i nostri figli Marc, 18 anni, e Marina, 8. Cucino io, soprattutto verdure. E la domenica tengo chiuso». Ma non bisogna fraintendere. L’attaccamento alle radici di Joan non è sinonimo di chiusura. Lui e i fratelli sono sempre in cerca d’ispirazione. Da due anni vanno in tour estivo con l’intera brigata (35 persone): l’anno scorso in Sudamerica, quest’anno negli States. «Dobbiamo scoprire nuovi ingredienti e nuovi sapori». Piccolo mondo sì, ma senza confini.