Corriere della Sera, 21 agosto 2015
Anche le danzatrici del ventre abbandonano l’Egitto. Ormai la vita sul Nilo si riassume in un anagramma: «al-Sisi o l’Isis?». La scelta è fra il male minore del generalissimo e il tanto peggio promesso dal Califfato. Ma i 54 nuovi articoli antiterrorismo che consentono ad al-Sisi di punire qualunque opposizione non fanno ben sperare. Dieci anni a chi compie «atti contro il governo», sette a chi esprime simpatia per i Fratelli musulmani, 65mila dollari di multa a chi contraddice le veline governative e per essere considerato un terrorista basta disturbare «l’ordine pubblico». Il che è tutto dire
Le ultime ad arrendersi sono state le danzatrici del ventre. «Qui è diventato tutto difficile», ha scritto Soraya sul suo profilo Facebook, in una cornice di cuoricini, prima di salutare gli ammiratori dell’albergone di Zamalek: «Vado a lavorare in Marocco, spero d’incontrarvi là…».
Solo al Cairo, le egiziane che imparavano l’antica arte dell’ombelico movente erano 5 mila: oggi, qualche decina. Il ballo non vuole pensieri e ormai pure loro – tra forsennati islamisti e spaventati turisti – di difficoltà ne hanno fin troppe. Costrette a non svelare troppo né le forme, né il nome. Attente a non farsi filmare, perché il vicino di casa potrebbe sempre riconoscerle. Licenziate dagli hotel mezzi vuoti, in quest’estate nera cominciata dall’attacco nella Valle dei Templi e proseguita con le bombe nel metrò e al consolato italiano. Le egiziane non danzano più. Il loro posto, l’hanno preso le disinibite russe. O le spensierate brasiliane. Che non saranno brave uguali, ma almeno non hanno un fratello, un padre, un Paese intero pronti a menarle.
Al Sisi o l’Isis? Dopo due anni di giunta militare, la vita sul Nilo è sempre più in quest’anagramma che il regime rappresenta al mondo: la scelta obbligata fra il male minore del generalissimo e il tanto peggio promesso dal Califfato. O di qua, o di là. I nuovi attacchi nella capitale, chiunque sia stato, dimostrano che la strategia del terrore non si ferma nel deserto. «Questo non è più un posto normale!», si disperava ieri mattina Gawad Mahmoud, medico con lo studio poco lontano dalla nuova esplosione. E poiché è sulla normalità che il generalissimo ha costruito la sua popolarità – nel 2012 diventando ministro della Difesa in piena emergenza Sinai, nel 2013 organizzando il golpe dopo aver liberato un gruppo di poliziotti rapiti – ecco che il velo strappato si può rattoppare soltanto con annunci grandiosi (una nuova capitale), grandi opere (il raddoppio di Suez) e una grande repressione. Forte del consenso, Al Sisi s’è dato decine di leggi speciali senza un sì del Parlamento. I 54 nuovi articoli antiterrorismo gli consentono di punire qualunque opposizione. «Peggio di Mubarak», commentano molti osservatori: 10 anni a chi compia «atti contro il governo», 7 a chi esprima simpatia per i Fratelli musulmani (fuorilegge), 65 mila dollari di multa a chi contraddica le veline governative... Sei terrorista se disturbi «l’ordine pubblico», se metti «in pericolo la sicurezza sociale», se mini «l’unità nazionale», perfino se t’opponi «alla pubblica autorità» o colpisci «il diritto di proprietà». Qualche giorno fa, due poliziotti alle spalle, è comparso in tv l’attivista di un’ong. Ha «confessato» pubblicamente d’aver preso 8 mila dollari per sparare a dei militari: peccato che durante quella sparatoria fosse in carcere…
Finora, il messaggio Al Sisi=sicurezza è passato. Il presidente è riuscito a mostrarsi per l’Egitto quel che il generale Haftar cerca d’essere per la Libia: l’estrema diga contro i fanatici. E la nuova democrazia araba? L’indignazione Usa s’è limitata a qualche nota «preoccupata», assieme alla fornitura d’un miliardo e mezzo di dollari in Apache ed F-16. L’Ue, a ruota. Nemmeno la condanna a morte di Morsi, il deposto presidente islamista, ha raccolto molte critiche internazionali. Per non dire dello scandalo «Sisi-leaks», le telefonate del generale che nel 2014 chiedeva ai kuwaitiani di versargli 10 miliardi di dollari su conti delle Forze armate.
È la grande emergenza a coprire tutto: un deficit pubblico da bancarotta, un deficit energetico che spesso lascia interi quartieri del Cairo al buio, un deficit alimentare che fa dell’Egitto il primo importatore mondiale di grano…
Al Sisi vince facile, nella pochezza di chi lo circonda: mentre sulla tv impazzano i predicatori salafiti, quelli che inneggiano al jihad globale, che fanno i grandi turbanti cairoti dell’Università sunnita al Azhar? Prendono le distanze? Avvertono le masse del pericolo Isis? Macché. Il loro ultimo appello è stato contro un film su Maometto: l’hanno girato gli sciiti iraniani e – inaccettabile – si permette di raffigurare il Profeta. «Bisogna cambiare prima le teste», ha ripetuto mercoledì Al Sisi ai leader religiosi: «Siate ambasciatori di fede. Diffondete il verbo vero dell’Islam». L’hanno ascoltato in silenzio e, in silenzio, se ne sono andati.